17 dicembre 2012

Repêchage/Angelo Savelli Bianco, spirituale ma irregolare

 
Curioso, buffo, angelico, ma anche tragico. Che ad un certo punto della sua vita sceglie di dipingere solo bianco. Personaggio sui generis, sebbene accostato ai grandi del calibro di Fontana e Manzoni, Angelo Savelli è stato un artista molto apprezzato in vita, ma quasi dimenticato dopo la sua morte avvenuta vent'anni fa. Ora un'imponente mostra lo ricorda nella sua Calabria. Ne parliamo con Alberto Fiz

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Il 15 dicembre ha inaugurato al Marca, il Museo delle Arti di Catanzaro, la mostra “Angelo Savelli. Il maestro del Bianco” (fino al 30 marzo 2010). È la più esaustiva rassegna dedicata all’artista di origine calabrese a più di vent’anni da quella del Pecci di Prato. Ne parliamo con Alberto Fiz, curatore insieme a Luigi Sansone della mostra, nonché direttore artistico del Marca.

Come è stata concepita questa mostra che vuole essere la più completa su Savelli, con quali opere?

«Ci sono circa settanta opere, dal 1932 agli ultimi lavori. Rispetto alla mostra del Pecci del 1994, per esempio questa è più diversificata, vi sono presenti più periodi, come i lavori degli esordi, che vanno più o meno dagli anni Trenta fino al 55 circa, in cui ancora vi era l’uso del colore. Poi vi sono opere come White Space del 1955 che Leo Castelli ha esposto nella personale del 1958, e prestiti straordinari della Fondazione Prada e della Fondazione VAF-Stiftung, del Mart di Rovereto e del Museo del Novecento di Milano a cui si aggiungono i prestiti della famiglia Savelli, del Museo Civico di Taverna e del Centro Angelo Savelli. Vi sono anche degli inediti, come Shelter 12th Floor, un’opera mai esposta proveniente dalle collezioni dalla GNAM di Roma e Stanza luce, una ricostruzione ambientale di cui Savelli aveva progettato la realizzazione nel 1992 per il Museo di Taverna in Calabria. Il catalogo stesso si propone di presentare l’artista in maniera completa, oltre che con i testi critici anche attraverso le testimonianze di chi l’ha conosciuto e sostenuto, come Argan, Palma Bucarelli, Piero Dorazio, ed alcuni scritti dello stesso artista».

Si è detto spesso del rapporto di Savelli con Fontana – “Ci sono due forme di spazialità, ha scritto Savelli, quella reale e terrena di Fontana e quella mia che definirei eterica, in grado di comunicare con il subcosciente” e con Pietro Dorazio (furono entrambi docenti presso la Pennsylvania University di Philadelphia), ma vi sono nuovi parallelismi o prospettive critiche che possono essere colte all’indomani di questa ricognizione?

«Sicuramente, Savelli è un apolide nel sistema, non ha mai trovato una sua collocazione, non aderisce a Forma Uno, né tanto meno ad Azimut. E mentre per l’Italia è poco oggettuale, in America è considerato poco pittorico. Savelli utilizza la pittura fino in fondo, non va mai verso l’azzeramento dell’arte. Il primo bianco è del 1957, stesso anno dei primi Achromes di Manzoni, stesso periodo delle tele fasciate di Scarpitta e delle estroflessioni di Castellani e Bonalumi. Questi artisti sviluppano l’eredità di Fontana, lo stesso Manzoni da lì a poco andrà verso l’oggettivazione della pittura, che assumerà poi una sua concretezza. Savelli, invece, spiritualizza la materia, mantenendo una componente pittorica e una componente oggettuale. Così quando usa le corde, come nei quadri degli anni Sessanta – corde spesso grezze come quelle dei pescatori della sua infanzia – lascia completamente spiazzati gli americani che non riescono ad inquadrarlo in una corrente. Questo perché anche se le sue opere intercettano la matrice oggettuale propria delle vicende europee, consentendo un accostamento con Newman, Reinhardt o Ryman, egli non viene mai meno alla pittura, unica costante del suo lavoro».

Assoluto e silenzioso, questi sono i due aggettivi generalmente propri alla percezione del “bianco”. Quale percezione connota il bianco di Savelli?

«La monocromia di Savelli è accidentata, diseguale, tormentata, ruvida, discontinua, ogni opera ha delle sue caratteristiche specifiche. Il bianco non è solo legato alla metafisica o alla purezza, ma è anche l’infinito e non esiste se non come proiezione di immagini instabili che sembrano emergere dal fondale. Le sue sono opere aperte e mettono in discussione le regole della razionalità, anticipando in qualche modo la “smaterializzazione” e la “fluidità” tipica di molti lavori dei nostri giovani artisti. Penso per esempio alla geometria ritagliata su un velo di nylon. Savelli è così innovativo, poco ovvio, molto sperimentale».


Dalla Calabria Savelli partì molto giovane, per poi trasferirsi a Roma e dopo ancora a New York, nonostante abbia lavorato con i più importanti galleristi del tempo e più volte presente alla Biennale e alla Quadriennale Romana, questa rassegna avviene a distanza di quasi venti anni dall’ultima al Pecci di Prato. Come mai?

«Savelli dialoga con i maggiori artisti internazionali ma non si cala mai nel sistema che infatti gli rimane fondamentalmente ostile, tranne che probabilmente nel periodo romano, quando veniva apprezzato dalla Bucarelli e da Argan. Savelli è una figura autonoma e proprio questo ha creato non poche difficoltà sia nel raggiungimento del successo che nell’inserimento in un movimento. Già di questo ne parla Dorazio, in occasione della prima grande mostra dedicata in Italia a Savelli al Pac nel 1984, dicendo appunto di una pittura che non prende posizione tra astrattismo e figurazione. Accanto a questo vi è poi stata come una rimozione o una mancanza di conoscenza, nelle mostre sul bianco Savelli non potrebbe e non dovrebbe mancare».

Quali i progetti futuri del Marca?

«Stiamo lavorando su diversi progetti, molto interessanti, ti posso anticipare solo uno dei primi del nuovo anno, una mostra dedicata ai giovani artisti calabresi, Santo Alessandro Badolato, Paola Ascone, Leonardo Cannistrà, Roberta Mandoliti, che hanno partecipato in giugno al concorso per accedere ad uno dei programmi d’artista della Dena Foundation for Contemporary Art presso l’Omi International Arts Center dello Stato di New York».

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