30 aprile 2013

Speciale Biennale/Parlano gli artisti del Padiglione Italia

 
E a parlare stavolta è un grande artista: Gianfranco Baruchello, che risponde con passione alle domande di Michela Casavola. Sull’appuntamento della Biennale e su tante altre cose

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Hai partecipato all’ultima Documenta, sei tra gli artisti invitati per la Biennale di Venezia, sia al Padiglione Italia che al “Palazzo Enciclopedico” di Massimiliano Gioni. Con che spirito vivi questa grande attenzione nei confronti del tuo lavoro aumentata negli ultimi anni in modo esponenziale?
«Si da il caso che oggi mi trovi alle prese con impegni e scadenze relative agli eventi ai quali fai cenno, molto pressanti e ristretti. Certo: sono contento dei riconoscimenti ora in corso o programmati, che però fanno seguito ai tanti analoghi arrivati nella mia lunga vita. Ho avuto mostre personali, edizioni di scritti, produzioni di film e video. Sono contento ma anche un po’ scettico: la gloria ha un suo andamento vagante, sale e scende, poi risale e così via. Brilla e impallidisce con moto alternato. Quindi, forse, non mi sono mai basato sul successo. Il mio lavoro è andato e va avanti cercando il riferimento principale nella voglia di fare e di capire». 

Gianfranco Baruchello - Gruppo di spettatori che si dichiara d'accordo con le nostre tesi, 1967 Courtesy Fondazione Baruchello, Roma


Sei sempre stato molto vicino ad ideologie di sinistra, alla letteratura impegnata socialmente e politicamente, senza mai rientrare in un gruppo ben definito. Il tuo essere presente, ma al “di fuori”, in che modo ha influito sull’andamento di questa “gloria”?
«Lavoro, come sai, da solo. Tutto esce da due antiche mani, e una testa con due occhi “usati”. Mani, testa, occhi: tutto è insieme, funziona, ma con limiti programmati nel tempo. Ciò che si può apprezzare oggi però è non solo questo riconoscimento avuto, ma il sapere, constatare, che “ci sono riuscito” in totale solitudine senza arruolarmi in gruppi o movimenti, anche se me ne attribuivano, a posteriori, l’appartenenza».
Realizzerai dei lavori inediti sia per il Padiglione Italia che per “Il Palazzo Enciclopedico”?
«Inedito, certamente, per il Padiglione Italiano. Nella mostra di Pietromarchi, sono in dialogo con Elisabetta Benassi e mi fa molto piacere. Il progetto si concentra sull’idea di laboratorio: una sorta di officina per pensare o sul pensiero. Materiali e oggetti diversi interagiscono in una complessa struttura che “mette al lavoro” il passato e il presente, tra realtà e visioni. Nel “Palazzo Enciclopedico” invece, ci saranno opere storiche che tornano su una mia vecchia idea che sia necessario inventare “opere da camera”, per far coesistere “più notizie in un solo momento”. Ho tanto lavorato su come far coesistere la molteplicità, le contraddizioni, del reale e del possibile, di cose diverse apparentemente inconciliabili».
 
Gianfranco Baruchello - Intorno a un progetto per la Biennale di Venezia. Un ponte per Venezia, (1980) Courtesy Fondazione Baruchello, Roma
Come vedi la grande macchina espositiva della Biennale in un luogo così complicato e difficilmente accessibile come Venezia?
«Venezia città è amabile e scomoda, legata a molti miei piacevoli eventi personali. La Biennale è per me ricordi, fatica (i vaporetti, la pioggia se devi camminare a piedi), il pubblico che domanda e altro».
Puoi raccontarmi una partecipazione ad una Biennale passata particolarmente significativa per il tuo lavoro?
«Negli anni Settanta (non ricordo l’anno preciso) allestii una sala personale, alle Zattere non ai Giardini, con immagini, oggetti e un testo distribuito al pubblico sul tema di La navigazione in solitario. Avevo inventato un personaggio (il navigatore) cui avevo dato il nome di Francis D’Adat, a metà strada tra Picabia e Alain Gerbault…».
Harald Szeemann durante le sue due edizioni de La Biennale di Venezia ha eliminato il Padiglione Italia, che successivamente è stato reintrodotto. Nel mondo globalizzato nel quale viviamo, fino a che punto si può parlare ancora di una ricerca “nazionale”? Sarebbe meglio racchiudere gli artisti nei confini di un linguaggio comune?
«Non penso ai singoli artisti come portatori di una bandiera nazionale né riesco ad immaginare “linguaggi comuni”, come dici. Ci aveva provato Stalin, con mediocri risultati. Il territorio che hai davanti si chiama “il possibile” il cui orizzonte è “l’incerto”. Il tuo linguaggio ti aiuta e difende (quando non ti tradisce). Ricordo Harald con tenerezza e nostalgia». 
Gianfranco Baruchello, 1975 (foto A. Schwarz)
Molti sono i tuoi interventi in conformità con luoghi e contesti. Penso ad esempio al giardino di Ginkgo Biloba realizzato in Puglia, per la prima volta in Italia, al Torrione Passari nel 2011, ricordo un tuo racconto su alcuni alberi di Ginkgo piantati nel giardino di quella che sarebbe diventata poi la Fondazione Baruchello a Roma. La vita e la tua arte hanno vissuto dei cicli? Inizierai alcuni cerchi tematici o ideologici con i prossimi lavori?
«Ci sono alti e bassi nel fare come nel vivere, ma non li chiamerei cicli: momenti, temi, ossessioni. Si cresce sempre se la curiosità e la voglia non ci abbandona».
Il tuo lavoro potrebbe essere considerato come una sorta di “corpo enciclopedico” nel quale ritroviamo diverse sfere di pensiero? Un “piccolo sistema” pieno di riflessioni sul mondo, reale e utopistico che sia?
«Sono un appassionato utente di elenchi (telefonici), vocabolari, enciclopedie. Mi piace proporre immagini e idee a partire dalle parole. Utopia è una parola affascinante che rima non solo con enciclopedia, ma anche con anarchia, empatia. Queste quattro parole potrebbero figurare sulle quattro mura di un mio ipotetico bunker a difesa dell’io. Ma possono anche trovarsi alla base di quella che ho pensato, con Carla Subrizi, come un luogo per mettere insieme idee, utopie, desideri: la Fondazione Baruchello è nata come una sfida per fare “un’altra” avventura  nell’arte, oggi, spogliandomi di tutto quello che avevo messo insieme». 
Gianfranco Baruchello - Il giardino di Ginkgo Biloba, Torrione Passari, Molfetta (BA) 2011-2012
Sei nato a Livorno, una città portuale come Venezia, quest’ultima strettamente condizionata nel bene e nel male dalla presenza dell’acqua. Non molto tempo fa, mi raccontavi del tuo contrastato rapporto con il mare. Quanto il mare e la natura hanno influenzato la tua vita e la tua arte? 
«Il mare, un grande sogno cancellato dalla guerra (persa). Da ragazzo mi addormentavo pensando di essere al timone di una barca a vela. L’età distrugge questi scenari o meglio li sostituisce con i doveri, i malesseri, la malinconia. Saper invecchiare è una complessa scienza per autodidatti che aspirano alla condizione pacifica di “essente stato”».
Dai diari parigini di Amedeo Modigliani: risa e strida di rondini sul mediterraneo – o Livorno! Questa corona di grida, questa corona di strida, io offro…. Da lontano Modigliani rivolge il suo costante pensiero e offre la sua esperienza al luogo delle sue radici dal quale è fuggito ma non si è mai interiormente distaccato. Il tuo viaggio ha avuto tante tappe, senza poi ritornare al punto di partenza. Quanto l’allontanamento da questo è stato casuale, necessario o doloroso?
«Grande lontananza di menti, pennelli, tavolozze, colli lunghi e volti ovali. La cervicale mi richiama alla realtà. Le rondini: troppo romantiche? Livorno: il libeccio o, come dicono i livornesi “il salmastro”. L’ho tradito cercando il “dolce”».
Gianfranco Baruchello - Navigazione in solitario (particolare del progetto), 1975 Courtesy Massimo Valsecchi, Milano

Stiamo assistendo ad un momento di caos generale in Italia, e di forte cambiamento. È triste constatare che nessun partito politico abbia avuto un’attenzione alla cultura: nei programmi elettorali non ci sono state voci dedicate all’arte. Cosa vedi nel futuro della cultura italiana? Da chi potrebbe realmente partire un cambiamento positivo?
«Situazione politico culturale in Italia? Catastrofica. “Con la cultura non si mangia”, parole di un (tramontato?) ministro italiano. Come azzardare vaticini oggi nella confusione caotica delle voci, degli interessi di parte gestiti in modo così rozzo nel corso delle lotte elettorali? Occorre un serio sforzo fisico per trattenere la nausea quando certi volti innominabili appaiono sugli schermi tv. Ho messo a punto esercizi (non del tutto efficaci) per bilanciare quei “momenti” quotidiani». 
Sono andata anch’io via dall’Italia, come tanta gente che lavora nell’arte e nella cultura vivo a Berlino. Mi chiedo sempre che senso abbia ancora oggi essere “nomadi”, in un mondo globalizzato e costantemente collegato. Forse c’è bisogno ancora dell’esperienza diretta o forse questa globalizzazione è soltanto una costruzione superficiale? A volte penso che sia solo una necessità! Se potessimo vivere liberamente e crescere nel posto in cui siamo nati non lo abbandoneremmo mai?
«La tua giovane età, la tua energia ti spinge, ti stimola, ma non ti vaccina contro la nostalgia. Prima o poi si “torna a casa” per poter ripartire». 
 

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