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Margaret Bourke-White, creatrice di icone: la mostra a Reggio Emilia
Fotografia

Una delle più grandi e famose artiste che hanno illuminato con il proprio sguardo la prima parte del Secolo Breve, viene analizzata nelle sue molteplici sfaccettature, dalla copertina del primo numero della rivista Life fino ai grandi reportage sull’industria americana, passando per le opere sulla Grande depressione e sulla Seconda guerra mondiale. In un breve lasso di tempo Margaret Bourke-White è riuscita a lasciare un marchio indelebile, tra le prime sui campi di battaglia, con le truppe Alleate, in tutti gli scenari di guerra dall’Unione Sovietica – fu tra i pochissimi occidentali, come dimostra il suo splendido ritratto di Stalin dove il dittatore quasi sorride e abbassa le sue difese – all’Italia e alla Germania, documentando anche il dramma dei campi di concentramento. A cura di Monica Poggi, visitabile fino all’8 febbraio presso i Chiostri di San Pietro di Reggio Emilia, promossa da Fondazione Palazzo Magnani in collaborazione con il centro Camera di Torino, la mostra è scandita da 120 fotografie e merita di essere visitata per riscoprire una vera icona del Novecento.

Suddivisa in sei sezioni tematiche, l’esposizione permette un excursus del suo straordinario carattere anticonformista. Donna libera in un mondo prettamente maschile, ha saputo dare una svolta alla storia della fotografia del Novecento tra sensibilità artistica e coraggio civile. Sempre pronta, nel posto giusto al momento giusto, ha attraversato tutti i generi. La rivista Life, alfiera del New Deal, riprese subito la sua poetica, come negli scatti della diga di Fort Peck, per analizzare il rilancio economico dopo la Grande depressione voluto dal presidente Roosevelt.

Tra le prime a creare l’incanto delle fabbriche e dei grattacieli, come testimoniano gli scatti presenti in una sezione della mostra, fu invitata dall’editore Henry Luce a collaborare con la rivista Fortune. I rischi intrapresi per realizzare foto memorabili sono ben dimostrati dagli inediti punti di visti che la videro salire in cima ai grattacieli oppure imbragata sotto a un elicottero che attraversa Manhattan, per lavori ammirati di suoi grandi colleghi, come Oscar Graubner.

e la 9a Avenue, nel cuore del Garment District, New York City, 1930
Prima fotografa occidentale ammessa in Russia, ritrasse i piani quinquennali di Stalin e gli uomini che modernizzarono il grande Paese poco prima dello sforzo bellico. Cielo e fango, le fotografie sui vari fronti della guerra, nordafricani, italiani, sovietici sino all’entrata a Berlino e nei campi di concentramento, in particolare Buchenwald, dimostrano quanto i suoi reportage siano una testimonianza preziosa della follia della guerra.

Gli anni tra le fine dei Quaranta e Cinquanta la videro alle prese con dei grandi reportage in India, Pakistan, Corea, con un indimenticabile ritratto di Gandhi. La sua carriera si concluse, a causa del Parkinson, poco dopo una memorabile serie sul Sudafrica dell’apartheid, posta in parallelo con il sud degli Stati Uniti, dove il segregazionismo era ancora ben radicato.












