11 ottobre 2019

Mi piace solo Rick e Morty delle serie Netflix, disse lo studente di latino

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La quarta stagione della serie di Dan Harmon e Justin Roiland sarà trasmessa dal 10 novembre. Intanto, ecco cosa abbiamo visto nelle altre tre

Nel caso delle serie televisive, più che dall’algoritmo in grado di adeguarsi ai miei desiderata, a instradarmi sono i consigli più improbabili, quelli mai suggeriti dall’esperto di turno, piuttosto dall’entusiasta spettatore che non può fare a meno di indicare le sue preferenze in fatto di consumo audiovisivo seriale. Quando poi il suggerimento arriva diretto da under18 in assetto lezioni di latino e greco sono quasi certo si tratti di un consiglio che va oltre il semplice pour parler, per farsi indicazione culturale programmatica. Così, tra una quarta declinazione mai ripetuta e qualche norma relativa ai verbi assolutamente impersonali, quel «Mi piace solo Rick e Morty delle serie Netflix» doveva suonare in qualche modo familiare alle mie orecchie e incoraggiarmi nella vertiginosa scalata ai 30 episodi che compongono le tre stagioni al momento disponibili in rete, in attesa dell’immancabile prosieguo.

Rick e Morty serve su un piatto d’argento – puntate da circa 25 minuti ciascuna, in aperta continuità con le abitudini cartoonistiche televisive – una serie di motivi che a uno studente liceale stanno proprio a cuore, a partire dall’inutilità di una formazione scolastica pur necessaria per ribadire i ritmi della vita quotidiana in quella che deve ancora essere la vita americana d’ogni giorno. Un miscuglio di scienze inverificabili propone la misura della sparaporte quale collasso spazio temporale verso i mondi di una immaginazione finemente organizzata tale da riportare in auge quel tema scientifico già significativo in serie come Big Bang Theory, senza che sia l’aderenza alla realtà a dare la misura del sorrisino in salsa nerd, stavolta.

Lo sfasciato ambiente familiare, ritrovo di motivi di freudiana memoria, offre ai protagonisti della faccenda uno schema fisso con cui dialogare a ogni puntata, sospesa tra l’edonismo egotico del dottore e l’incontrollabile frenesia del nipotino. Sullo sfondo ci sono una pluralità di temi investigati con serena coscienza critica audiovisiva. Si pensi a quelle puntante con la moltiplicazione di Rick e Morty dove il tema voco-centrico viene in qualche modo rimarcato offrendo differenze che possono cogliersi solo allo sguardo, al netto di alcuni modelli narrativi che rintracciano nell’amata impossibile, nella sorella dovutamente presente e negli altri personaggi di contorno alcune strategie per allungare il sugo della storia.

Ho apprezzato la portata storica di questo prodotto nel fare i conti con la tradizione invocata a riferimento (dai Simpson a Futurama passando per South park), un giocare con i limiti delle abitudini (per esempio, al termine di una stagione in attesa della prossima), dichiarando insomma come costitutivi della produzione i riferimenti canonici e indicando, in questo modo, la capacità di questa serie di porsi quale metaserie, riflettendo acutamente sullo statuto già scritto di questa formula narrativa al punto da riscriverne le regole nella densità della proposta di ogni singola puntata, laddove il montaggio alternato delle storie intrecciate e quello analitico delle singole sequenze sembrano proporre un esercizio piuttosto vorticoso di controllo da parte delle svariate decine di persone che confezionano il prodotto.

Insomma, Rick e Morty rianima un discorso sul modello seriale, specie riferito ai cartoni animati che, eccezion fatta per i cineminestroni Disney, non conoscono altro modo di riverberarsi nella sensibilità del pubblico di massa che quello della puntata: questa produzione ha dunque il merito di indire una sorta di processo alla tradizione, considerandosi più forte di essa, pur lontana dal modello in qualche modo orwelliano di casa Horseman.

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