08 luglio 2025

Il Golem di Amos Gitai chiude gli occhi di fronte alla tragedia del presente

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Il festival Pompeii Theatrum Mundi del Teatro di Napoli si apre con il Golem del regista israeliano Amos Gitai: la pretesa di universalità si esaurisce in una visione troppo parziale della storia. E del presente

Golem, di Amos Gitai, Ph. Simon Gosseli

Visivamente, l’inizio di Golem, del regista israeliano Amos Gitai (spettacolo che ha inaugurato il festival Pompeii Theatrum Mundi del Teatro di Napoli, in collaborazione con Campania Teatro Festival 2025), è di forte impatto. Una moltitudine di vestiti cenciosi estratti da grandi sacchi e buttati a terra con forza, riempiono l’intero spazio scenico del teatro romano di Pompei. A compiere il doloroso gesto – ogni abito ricorda una vittima dei campi di sterminio – sono delle figure umane che, al suono struggente di una melodia d’arpa (e di altre musiche, via via, eseguite dal vivo da un pianoforte, una cetra iraniana, un violino), giungono lentamente dal buio. Ognuna è portatrice di una storia personale e collettiva: testimonianze che, una alla volta, rivolgendosi al pubblico, andranno a snocciolare lungo tutto l’arco dello spettacolo. Sono attori, attrici, musicisti e cantanti, con lingue, origini e tradizioni molteplici, che compongono un mosaico sensoriale di racconti presi dalle loro biografie e da testi di Isaac Bashevis Singer, di Joseph Roth, di Léon Poliakov e di Lamed Shapiro, espressi anche con frammenti di immagini (con una iniziale citazione di un film di Gitai, Tsili) proiettate su un lungo schermo orizzontale.

Nella foto Menashe Noy in una scena di GOLEM al Teatro Grande di Pompei ph. Ivan Nocera

Il titolo dello spettacolo fa riferimento alla leggendaria figura del Golem, creatura d’argilla della tradizione ebraica, creata da un rabbino per proteggere la comunità ashkenazita di Praga perseguitata e che risponde agli ordini del suo artefice. Gitaï, nell’evocare la persecuzione degli ebrei nel corso dei secoli, sovrappone così il mito del Golem – quale essere artificiale con impresso sulla fronte la parola “verità”, e capace di combattere la natura, i nemici, l’odio, la miseria – a interrogativi contemporanei sul male, sulla verità, sul rapporto tra creazione e distruzione, volendo ideare una parabola dal respiro universale sul doloroso destino delle minoranze.

Nella foto Bahira Ablassi in una scena di GOLEM al Teatro Grande di Pompei ph. Ivan Nocera.

Il regista prende ispirazione soprattutto da un racconto favolistico per bambini dello scrittore americano di origine polacca Isaac Bashevis Singer. Si narra di un rabbino a cui Dio avrebbe dato il potere di creare un gigante d’argilla a grandezza naturale per salvare un banchiere ebreo, ingiustamente accusato da un conte – al quale aveva rifiutato un prestito -, di aver ucciso sua figlia. Attraverso quest’uomo, che un sistema giudiziario corrotto dall’antisemitismo secolare della Chiesa cattolica condannerebbe volentieri a morte, è l’intero popolo ebraico, minacciato a livello globale da queste false accuse – all’epoca all’ordine del giorno -, che il rabbino deve difendere. L’autore, scegliendo lo yiddish – «una lingua in esilio, senza paese, senza confini, una lingua non sostenuta da alcun governo…una lingua di un’umanità piena di timore e speranza» -, dedica questa storia «…ai perseguitati, agli oppressi in tutto il mondo, giovani e vecchi, ebrei e gentili, nella folle speranza che il tempo delle accuse ingiuste e dei decreti iniqui giunga un giorno alla fine».

Nella foto Minas Qarawany in una scena di GOLEM al Teatro Grande del sito di Pompei ph. Ivan Nocera

La dedica di Singer è lodevole e condivisibile nelle dichiarazioni del regista di metterci  di fronte al terrificante meccanismo che porta all’odio per gli stranieri, al rifiuto degli altri e persino al desiderio del loro sterminio; ma nello spettacolo la restituzione del carattere più universale non viene resa sufficientemente esplicita, non mostrando, per esempio, nessun richiamo con la tragica attualità che è sotto i nostri occhi (con una tematica, testuale ed evocativa, così stringente e dichiarata, non si possono eludere riferimenti agli orrori sulle popolazioni che oggi, come avviene a Gaza, si perpetuano), invece che limitarsi solo a certi eventi storici e tutto alla luce della Shoah. A maggior ragione conoscendo Gitai, soprattutto come regista cinematografico, e anche, con le sue opere, per le opinioni “critiche” riguardo il conflitto israelo-palestinese, e per questo spesso censurato in Israele, ci saremmo aspettati un più incisivo affondo di denuncia con quanto accade oggi di terribile verso il popolo palestinese.

Nella foto Micha Lescot in una scena di GOLEM al Teatro Grande del sito di Pompei ph. Ivan Nocera

Tutto lo spettacolo è drammaturgicamente debole. Costruito a blocchi recitativi, risulta, salvo le musiche, alquanto monotono nei suoi monologhi didascalici, e alla lunga così pesante nelle sue 2 ore e 15, da distogliere l’attenzione. Poche le azioni: la più vivida, visivamente, quella degli interpreti che si cospargono tutto il corpo di argilla, azione preceduta dall’entrata in scena di pannelli bianchi striati con successive proiezioni di fiamme (la notte del Pogrom).

Golem, di Amos Gitai. Ph. Simon Gosselin

Il finale è un altro monologo dopo un ennesimo soliloquio di ciascun interprete, con una serie di frasi e affermazioni scontate, un po’ pretenziose nell’assunto, che vorrebbero sintetizzare il senso dello spettacolo, ma delle quali si poteva fare a meno: «Qual è il significato del Golem oggi? Noi siamo quelli che siamo. Con differenti identità, differenti storie, differenti origini. E se vogliamo che l’umanità vada avanti, dobbiamo accettare la convivenza di questa moltitudine di esistenze. Perché per noi, come per Darwish, Mandel’stam, Szymborska, Jorge Semprún e Albert Camus, la letteratura, il teatro e l’arte sono un luogo di resistenza».

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