26 febbraio 2024

In Scena: gli spettacoli e i festival della settimana, dal 26 febbraio al 3 marzo

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Una selezione degli spettacoli e dei festival più interessanti della settimana, dal 26 febbraio al 3 marzo, in scena nei teatri di tutta Italia

The Rite of Spring, Ph. Maarten Vanden Abeele

In Scena è la rubrica dedicata agli spettacoli dal vivo in programmazione sui palchi di tutta Italia: ecco la nostra selezione della settimana, dal 26 febbraio al 3 marzo.

Teatro e danza

LA SAGRA DELLA PRIMAVERA DI PINA BAUSCH

Arriva a Lugano, al LAC Lugano Arte e Cultura, il 28 e 29 febbraio, La Sagra della Primavera della coreografa tedesca Pina Bausch, che segnò la storia della sua compagnia Tanztheater Wuppertal, sin dal suo primo apparire nel 1975, e considerata tra le più belle riscritture mai realizzate, tanto per la bellezza tribale del gesto quanto per la paura imperiosa che suscita. Quest’opera cardine di Bausch è qui interpretata per la prima volta da una compagnia di danzatori provenienti da quattordici paesi africani, guidata da Germaine Acogny. Fedele alla composizione di Igor Stravinsky, la coreografia – osannata da pubblico e critica a livello internazionale – esamina un rituale inflessibile, con il sacrificio di una “prescelta” che cambia la stagione dall’inverno alla primavera.

In scena, uomini a torso nudo e donne in abiti leggeri danzano un rito sacrificale asciutto e violento su un palcoscenico ricoperto di terra. Apre la serata common ground[s] lavoro creato, interpretato e ispirato alla vita di due donne straordinarie: Germaine Acogny, “madre della danza africana contemporanea” e Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia 2021, e Malou Airaudo, ex membro del Tanztheater Wuppertal per il quale ha interpretato ruoli centrali in numerose creazioni di Pina Bausch. Entrambe coreografe, danzatrici e madri, si ritrovano in un luogo in cui realtà, ricordi e immaginazione si rispondono a vicenda; un luogo in cui, alla fine, conta solo il presente.

Questo duetto, poetico, tenero e umoristico, è un quadro in movimento in cui le due artiste danzano in un vortice di calma dove gli stati d’animo e le epoche si alternano.

The Rite of Spring, Ph. Maarten Vanden Abeele

IL RITO DI INGMAR BERGMAN

Il rito è un film scritto e diretto dal grande regista Ingmar Bergman nel 1969, il primo direttamente realizzato per la televisione svedese. È una sorta di cinema da camera, girato tutto in interni con soli quattro personaggi in atto. A tradurlo per la scena è oggi il regista Alfonso Postiglione.

Incentrato sul rapporto, spesso conflittuale, tra autorità costituita e azione artistica, racconta la vicenda di tre attori di teatro che vengono denunciati per l’oscenità presunta del loro ultimo spettacolo. Il giudice censore Abrahamsson, a cui è affidato il caso, li interroga per decretarne l’eventuale condanna. Ma dai colloqui con gli artisti – nel corso dei quali si svelano soprattutto le ambigue articolazioni dei loro rapporti, oltre che la discutibile natura dello stesso giudice – l’uomo non riesce a farsene un’idea chiara e chiede di assistere alla performance allestita nel suo stesso ufficio, alla fine della quale subirà conseguenze inaspettate.

«La performance dei tre artisti – si legge nelle note – è una sorta di rito dionisiaco dalle chiare valenze simboliche, in cui la forza della creazione artistica vince sui tentativi di censura e normalizzazione di una qualsivoglia autorità, politica o sociale». «Ma – continua il regista – oltre la censura, subita spesso da Bergman ai suoi tempi, nel testo è forse ancora più centrale il tema dell’impossibilità di contenere la potenzialità destabilizzante dell’atto artistico, votato a “stanare le verità dell’essere umano”, a rischio anche della morte».

“IL RITO” di Ingmar Bergman; adattamento e regia di Alfonso Postiglione. Nella foto (da sx) Alice Arcuri (Thea Winkelmann), Elia Schilton (Giudice Ernst Abrahmsson). Foto di Anna Abet

“Il rito” di Ingmar Bergman, traduzione di Gianluca Iumiento, adattamento e regia Alfonso Postiglione, con Elia Schilton, Alice Arcuri, Giampiero Judica, Antonio Zavatteri; scene Roberto Crea, costumi Giuseppe Avallone, musiche Paolo Coletta, disegno luci Luigi Della Monica, partitura fisica Sara Lupoli. Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Ente Teatro Cronaca, Campania Teatro Festival – Fondazione Campania dei Festival. A Napoli, Teatro San Ferdinandlo, dal 27 febbraio al 3 marzo.

TORNA MADINA ALLA SCALA DI MILANO

Dopo il successo della prima mondiale, torna al Teatro alla Scala di Milano Madina, creazione musicale e coreografica, progetto nuovo nell’approccio e nelle tematiche, attuali ma universali, raramente declinate nel balletto. La vicenda, ricalcata su un fatto di cronaca, ha per protagonista la giovane Madina, cresciuta in un teatro di guerra e spinta dalla famiglia a compiere un attentato suicida in una capitale occidentale. La ragazza sceglierà all’ultimo istante di non morire e non uccidere, ma dovrà ugualmente affrontare un processo. Pulsioni ancestrali, luoghi simbolici, dinamiche perverse di una violenza che stritola se stessa, in cui il bene e il male si contrappongono ma continuano a mescolarsi.

Con le coreografie di Mauro Bigonzetti, la composizione di Fabio Vacchi su libretto di Emmanuelle de Villepin tratto dal romanzo della stessa autrice La ragazza che non voleva morire è un lavoro di danza e di teatro dove coesistono parola, canto, musica e corpo, in una sintesi delle forme tradizionali e contemporanee dei tanti generi del teatro musicale che cancella i confini fra queste diverse espressioni.

Con protagonista Roberto Bolle (il 28, febbraio, 2, 7 e 9 marzo), e Antonella Albano nel ruolo di Madina, e Gabriele Corrado, Gioacchino Starace, Alessandra Vassallo, e il Corpo di Ballo scaligero. Direttore Michele Gamba, tenore Paolo Antognetti, soprano Anna-Doris Capitelli, e l’attore Fabrizio Falco. Il 28 febbraio e 1, 2, 6, 7, 9 marzo.

MADINA Antonella Albano e Roberto Bolle ph Brescia e Amisano_Teatro alla Scala

QUEI GIORNI FELICI DI BECKETT

Per uno dei capolavori del drammaturgo irlandese Samuel Beckett, in scena, diretti dal regista Massimiliano Civica, due grandi interpreti del teatro italiano: Monica Demuru, attrice, cantante e autrice, con un percorso di ricerca sulla vocalità tra musicalità pura e attenzione drammaturgica; e Roberto Abbiati, attore di teatro e di cinema, musicista e illustratore di diversi libri. Giorni felici è un dramma in due atti scritto nel 1961, tra i testi più alti di Beckett. Come nella sua opera più celebre Aspettando Godot, l’autore svuota il dialogo della sua funzione significante e porta i protagonisti a una totale inazione.

La conversazione e la situazione in cui riversano i due personaggi di Giorni felici – Winnie, una donna sulla cinquantina, e suo marito Willie, un uomo di sessant’anni dal cranio rotto e vuoto – divengono una chiara espressione della misera condizione umana. La coppia vive immobile, immersa nella sabbia: la donna è sepolta nel cumulo prima fino al busto e poi fino al collo, mentre il marito abita in una cavità del monticello sabbioso, alle spalle della moglie e quasi fuori dal suo campo visivo. «Quel monticello di sabbia è il colpo di genio di Beckett – commenta Civica – una volta accettate le sue “assurde” premesse (che una donna viva in un deserto bloccata dentro un cumolo di sabbia con accanto un marito a mobilità ridotta), ci troviamo davanti a un testo realista, ad una situazione e a un rapporto tra i personaggi improntati ad una assoluta “banale” quotidianità».

GIORNI FELICI, Roberto Abbiati e Monica Demuru. Ph Duccio Burberi

“Giorni felici”, di Samuel Beckett, traduzione Carlo Fruttero, uno spettacolo di Massimiliano Civica, con Roberto Abbiati e Monica Demuru, scene Roberto Abbiati, costumi Daniela Salernitano, luci Gianni Staropoli. Produzione Teatro Metastasio di Prato. A Modena, Nuovo Teatro delle Passioni, dal 29 febbraio al 3 marzo

ASSASSINIO NELLA CATTEDRALE

Un’opera potente che racconta l’uccisione di Thomas Becket nella Cattedrale di Canterbury, il 2 dicembre 1170. Sono gli ultimi giorni dell’Arcivescovo, di ritorno dalla sua permanenza in Francia durata sette anni. La monarchia, sempre più potente e pericolosa, è divenuta una reale minaccia, tanto che Becket stesso esprime con rassegnazione ai suoi sacerdoti la consapevolezza di andare incontro al martirio. Alcuni giorni dopo, infatti, quattro cavalieri inviati da Enrico II lo accuseranno di tradimento e porranno fine ai suoi giorni.

«Mai come oggi – spiega il regista Guglielmo Ferro – il capolavoro di Eliot rappresenta una testimonianza senza tempo sul rapporto fra opposti, nel cuore della civiltà occidentale: potere temporale e potere spirituale, ragione e fede, individuo e stato, libertà e costrizione. In questa vicenda leggiamo il dramma e l’esizialità delle scelte che oggi si compiono davanti ai nostri occhi. Di più: vi leggiamo lo iato fra la micro e la macro storia; fra la grande vicenda dell’umanità e la vicenda privata, piccola, di ciascuno di noi. L’ambiguità del potere e del suo sistema nel rapporto con gli individui è sempre presente: manipolatorio, ricattatorio, inafferrabile. (…) Una costante dell’infingimento, della manipolazione – appunto – del Sistema, che indirizza i destini di interi popoli senza – apparentemente – esercitare coercizione, ma, anzi, promuovendo libertà e democrazia. Oggi, la nostra versione del dramma, mira appunto a questa ‘trasversalità’ storica; a questa ‘atemporalità’, orientata a togliere la matrice specifica a questo conflitto, restituendola a una dimensione più generalmente estesa. Protagonista Moni Ovadia, ‘cantore dell’impegno’, che – anche – nella sua appartenenza alla cultura yiddish, suggerisce una polifonia di linguaggi e istanze antropologiche, oltre che storiche, civili e sociali».

Assassinio nella cattedrale, ph Cristian Migliorato

“Assassinio nella cattedrale”, di Thomas Stearns Eliot, regia Guglielmo Ferro, con Moni Ovadia, Marianella Bargilli, e con Agostino Zumbo, e (in o. a.) Viola Lucio, Pietro Barbaro, Francesco M. Attardi, Daniele Gonciaruk, Plinio Milazzo, Mario Opinato, Emanuela Trovato; scene Salvo Manciagli, luci Santi Rapisarda, musiche Massimiliano Pace, costumi Sartoria Pipi Palermo. Produzione Centro Teatrale Bresciano, Progetto Teatrando. A Brescia, Teatro Sociale, dal 27 febbraio al 3 marzo.

ZAPPALA’ E ASTOLFI A ORBITA

Doppio appuntamento il 2 e 3 marzo, al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma nell’ambito di Orbita/Spellbound. Inizia con questo breve episodio 2X2 (da Rifare Bach) l’atto d’amore artistico che Roberto Zappalà ha dedicato al grande Bach. Nessuna drammaturgia, nessun tipo di ragionamento intellettuale, soltanto una stretta relazione tra musica e danza. D’altronde Zappalà ha fatto proprio il pensiero di Charles Baudelaire: «Glorificare il culto dell’immagine e dell’estetica è il mio obiettivo ancor prima che il significato».

2×2 danzato da Anna Forzutti e Silvia Rossi, rappresenta una delle fasi di un percorso articolato in tappe che ha portato alla creazione a serata intera Rifare Bach (2021). Al centro del lavoro un universo coreografico che mette il corpo, con tutta la sua fragilità, quale elemento fondante e transito ineludibile. La naturale bellezza del corpo dei danzatori e della musica di Bach ha nella creazione un corollario di suoni della natura e del mondo animale.

Solo andata del coreografo Mauro Astolfi, è un racconto/incontro per tre danzatori, Maria Cossu, Giuliana Mele, Alessandro Piergentili di Spellbound Contemporary Ballet. Ognuno torna da qualcosa. Il fascino e la tentazione del richiamo di un viaggio di sola andata, quel desiderio primordiale di pensare che sta arrivando il momento per qualcosa di definitivo, per quella scelta che sarà per tutta la vita.  Una specie di strano “travel bug” dell’anima che ogni tanto torna a mordere e così ci si trova a cercare di riprodurre e interpretare la realtà in maniera svincolata da luoghi comuni morali e compositivi. Ma poi si torna, ci si trova attorno a un tavolo a raccontarsi che in fondo non ne valeva così tanto la pena. E torna il finto quieto vivere un po’ ipocrita e sempre presente e a volte ben riuscito.

Compagnia Zappalà Danza 2X2

456, STORIA COMICA E VIOLENTA DI UNA FAMIGLIA

Testo cult di Mattia Torre – sceneggiatore, autore teatrale e regista, insieme a Giacomo Ciarrapico autore, negli anni ‘90, delle prime commedie teatrali – 456 è la storia comica e violenta di una famiglia che, isolata e chiusa, vive in mezzo a una valle oltre la quale sente l’ignoto. Padre, madre e figlio sono ignoranti, diffidenti, nervosi. Si lanciano accuse, rabboccano un sugo di pomodoro lasciato dalla nonna morta anni prima, litigano, pregano, si odiano. Ognuno dei tre rappresenta per gli altri quanto di più detestabile ci sia al mondo. E tuttavia occorre una tregua, perché sta arrivando un ospite atteso da tempo, che può e deve cambiare il loro futuro. Tutto è pronto, tutto è perfetto. Ma la tregua non durerà. 4 5 6 nasce dall’idea che l’Italia non è un paese, ma una convenzione. Che non avendo un’unità culturale, morale, politica, l’Italia rappresenti oggi una comunità di individui che sono semplicemente gli uni contro gli altri: per precarietà, incertezza, diffidenza e paura; per mancanza di comuni aspirazioni.

4 5 6 è una commedia che racconta come proprio all’interno della famiglia – che pure dovrebbe essere il nucleo aggregante, di difesa dell’individuo – nascano i germi di questo conflitto: la famiglia sente ostile la società che gli sta intorno ma finisce per incarnarne i valori più deteriori, incoraggiando la diffidenza, l’ostilità, il cinismo, la paura. Dallo spettacolo è stato tratto l’omonimo sequel televisivo, prodotto da Inteatro e andato in onda su La7 all’interno del programma The show must go off di Serena Dandini.

456 di Mattia Torre Ph Alessandro Cecchi

“4 5 6”, scritto e diretto da Mattia Torre, con Massimo De Lorenzo, Carlo De Ruggieri, Cristina Pellegrino, e con Giordano Agrusta. Produzione Marche Teatro / Nutrimenti Terrestri / Walsh. A Roma, Teatro Vascello, dal 27 febbraio al 3 marzo; il 6 al Cineteatro, Olbia; il 7 Teatro Civico, Alghero; l’8 Teatro Comunale, San Gavino Monreale (SU); il 13 marzo, Teatro Comunale, Gradisca d’Isonzo (GO); il 15 Teatro Giovanni da Udine, Udine; il 17 Teatro Studio del Comunale, Bolzano. In tournée.

CECITÀ, DA SARAMAGO A SIENI

«Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono». Con questa frase di José Saramago tratta da Cecità, il coreografo Virgilio Sieni mette in danza il romanzo dello scrittore, poeta e drammaturgo portoghese, premio Nobel per la letteratura nel 1998.

Lo spettacolo racconta di un virus sconosciuto capace di rubare la vista alle persone. Tutti, all’improvviso, diventano ciechi. Cecità è una rieducazione alla vista, a un nuovo modo di sentire il mondo. Il cieco non è uno solo, ma un gruppo di persone che, attraverso gesti, tocchi, contatti, sensibilità, acquisisce un modo diverso di sentire e di vedere le cose e gli altri. Con Cecità si esplora quello stato di mancanza che risveglia la vita delle cose facendole sbalzare fuori dalla quotidianità, ricercando un’essenza che ricorda che prima di tutto siamo natura, una natura che reagisce a noi, capace di distruggere noi.

Siamo fatti di agenti e presenze che gemendo ci richiamano e la danza incarnata nei corpi risponde, restituendosi nella sua intraducibilità rituale. L’attenzione è su quello che già è qui, sul movimento musicale come tensione che coinvolge tutte le facoltà umane, per essere semplicemente vivi, per creare e ricreare quell’esperienza di iniziazione al movimento.

Cecità, coreografia Virgilio Sieni Ph Andrea Macchia

“Cecità”, liberamente ispirato al romanzo Cecità di José Saramago, ideazione, coreografia, spazio Virgilio Sieni, interpreti Jari Boldrini, Claudia Caldarano, Maurizio Giunti, Andrea Palumbo, Emanuel Santos, Lisa Mariani, musiche originali Fabrizio Cammarata, luci Andrea Narese, Virgilio Sieni, costumi Silvia Salvaggio, maschere, Chiara Occhini. Produzione Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni, TPE – Teatro Piemonte Europa, Teatro Metastasio di Prato. A Napoli, Teatro Mercadante, il 2 e 3 marzo; Rovereto, Teatro Zandonai, il 12 marzo.

SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE

A quasi cento anni di distanza, è ancora l’opera che meglio indaga il nostro rapporto tra vita e arte, reale e virtuale. Tra incursioni meta teatrali, prove aperte e nuovi ospiti ogni sera, l’opera di Pirandello è l’occasione per confrontarsi con la grande domanda: che cosa rimane dell’arte nell’epoca della sua riproducibilità digitale? Mettere in scena questo testo oggi significa muoversi in una mediasfera dove il confine tra vita privata, storytelling, informazione e manipolazione è sempre più labile. Senza contare che lo stesso concetto di “io” è profondamente mutato, moltiplicandosi e sfaccettandosi su tutti i nostri device e account social, in un’oscillazione continua tra realtà e rappresentazione.

Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello – il nome dell’autore in questo allestimento di Michele Sinisi è diventato parte del titolo è uno spettacolo matrioska, se così si può dire, in cui il piano meta-teatrale già presente nel testo viene portato all’estremo generando un cortocircuito dove attori, personaggi e pubblico convivono e si mescolano in un happening unico e irripetibile ogni sera.

A ogni replica, infatti, fra gli attori del cast irromperanno sul palco altre persone/personaggi a sorpresa – protagonisti del panorama teatrale – che interpreteranno una scena dello spettacolo destinata poi ad essere riprodotta come in uno specchio riflesso all’infinito. In un gioco di rifrazioni che userà ogni mezzo tecnologico a disposizione per ricreare il qui e ora dello spettacolo.

Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello

“Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello”, drammaturgia Francesco M. Asselta, Michele Sinisi, regia Michele Sinisi, con Stefano Braschi, Marco Cacciola, Gianni D’addario, Sara Drago, Marisa Grimaldo, Marco Ripoldi, Stefania Medri, Donato Paternoster, Michele Sinisi, Adele Tirante, Nicolò Valandro; scene Federico Biancalani, assistente alle scene Elisa Zammarchi, direzione Tecnica Ivan Pilogallo. Produzione Elsinor Centro Di Produzione Teatrale. A Roma, Sala Umberto, dal 29 febbraio al 10 marzo.

FRANKESTEIN, UNA STORIA D’AMORE

Frankenstein, a love story, “l’ultima creatura” dell’iconica formazione Motus, inaugura il 28 febbraio al Teatro Cantiere Florida di Firenze, l’11/ma edizione di “Materia Prima Festival”. Lo spettacolo vedrà, accanto alle performer Silvia Calderoni e Alexia Sarantopoulou, il ritorno in scena di Enrico Casagrande, cofondatore della compagnia. Pubblicato nel 1818, Frankenstein o il moderno Prometeo, della diciannovenne Mary Wollstoncraft Godwin, poi Mary Shelley, il romanzo, con la biografia di Maryche tanto si riflette nelle vicende dolorose della creatura inascoltata –, viene rielaborato seguendo tre linee: quella della scrittrice, dello scienziato e della Creatura.

Un progetto mostruoso composto dalla cucitura di diversi episodi e dal desiderio di ridare vita all’inanimato, galvanizzandolo, scomponendo e ricomponendone pezzi letterari. La notte in cui Mary Shelley sogna Frankenstein ad occhi aperti ricorda la notte in cui lo scienziato vaga raccogliendo frammenti di cadaveri, come la notte primitiva, dell’inizio del mondo. Scenari di creazione, immaginazione mostruosa. La natura è in tumulto. Nei paesaggi estremi, raggelati, dolorosi, due figure si inseguono, cercando ripari. Rabbia, amore, inquietudine, orrore, e ancora amore, amore, un eccesso di amore non corrisposto.

«Non vedevo né sentivo parlare di nessuno simile a me» – come l’umano, unico della sua specie, anche la creatura è un unico. La solitudine radicale di un essere inascoltato, intoccabile, che non trova nessuno a cui parlare, che possa pronunciare il suo nome. È sui confini che i mostri proliferano. Tra i mondi. E qui, tra le cuciture suturate di carni e pelli diverse, questo lavoro prova a stare. Il mostro generato è “un infelice”, come si dice di chi parte svantaggiato, di chi nasce non perfettamente equipaggiato per l’avventura del mondo: ma si ricordi bene che “monstrum” deriva da “monēre”, ammonire, e nel monito c’è sempre qualcosa di prodigioso.

Frankenstein © Margherita Caprili

LA SPARANOIA. ATTO UNICO SENZA FERITI GRAVI PURTROPPO

Scrive l’autore Niccolò Fettarappa, anche interprete insieme a Lorenzo Guerrieri, a proposito dello spettacolo La sparanoia. Atto unico senza feriti gravi purtroppo: «Non ci sono buone notizie. La Sinistra è defunta ed è meglio così. I fumogeni sono banditi. Il Ministro alle Politiche Giovanili sogna di divorare gli studenti che manifestano. I giovani, addomesticati, non trovano più il piacere di delinquere: vivono a casa, perimetrati da un metro quadro e con l’ossessione dei lavaggi delicati.

Il compagno Niccolò si innamora di colonnelli e programma orgasmi in caserma. A fargli da spalla, un Fidel Castro che vive a Miami e preferisce gli scaldabagni alla rivoluzione. Niccolò coltiva la missione civile di far esplodere tutto: vorrebbe uscire di casa, mettere una bomba, organizzare un nucleo armato terrorista, portare l’attacco al culo dello Stato. Organizza un comitato di agitazione permanente con la terza età. Basta casa, basta riposini. Basta abuso delle tisane al finocchietto.

La Sparanoia è il grido perforante che muore in gola, è la voce di chi non ha voce, è il megafono del ruggito addomesticato, della rabbia scolarizzata che ha imparato a dare del lei. La Sparanoia è il pianto dei  serial killer narcolettici e dei bolscevichi da divano».

Il lavoro si sviluppa e si approfondisce grazie anche alla Scuola di Scritture diretta da Lucia Calamaro e promossa da Riccione Teatro. A Milano, Teatro Franco Parenti, dal 27 febbraio al 10 marzo.

Fettarappa, Guerrieri © Laura Farneti

LE VOLPI DI IERI E DI OGGI

Scritto da Lucia Franchi e Luca Ricci, Le volpi è ambientato nell’ombra di una sala da pranzo, all’ora del caffè, in un’assolata domenica di agosto, dove si incontrano due piccoli notabili della politica locale e la figlia di una di loro. Tutto intorno i pensieri volano già al mare e alle vacanze, eppure restano da mettere in ordine alcune faccende che interessano i protagonisti della storia. Davanti a un vassoio di biscotti vegani, si confessano legittimi appetiti e interessi naturali, si stringono e si sciolgono accordi, si regola la maniera migliore di distribuire favori e concessioni, incarichi di servizio e supposti vantaggi.

La provincia italiana è la vera protagonista della vicenda, quale microcosmo in cui osservare le dinamiche di potere, che hanno sempre a che fare con i desideri e le ossessioni degli individui. Morbidamente, si scivola dentro un meccanismo autoassolutorio per cui è legittimo riservarsi qualche esiguo tornaconto personale, dopo essersi tanto impegnati nella gestione della cosa pubblica. La corruzione è proprio questo concedere a se stessi lo spazio di una impercettibile eccezione.

Come scrive Leonardo Sciascia nel suo romanzo Todo modo: «I grandi guadagni fanno scomparire i grandi principi, e i piccoli fanno scomparire i piccoli fanatismi”.

Capotrave – Le volpi

“Le volpi”, di Lucia Franchi e Luca Ricci, con Antonella Attili, Giorgio Colangeli, Federica Ombrato, costumi Marina Schindler, suono Michele Boreggi, Lorenzo Danesin, luci Stefan Schweitzer, scena e regia Luca Ricci. Produzione Infinito. A Roma, Spazio Rossellini, l’1 marzo.

LA SCOMPARSA DI MAJORANA. A CATANIA

Scomparso nel 1938, partito in nave da Palermo ma apparentemente mai approdato a Napoli, il giovane e promettente fisico siciliano, Ettore Majorana chiuso in se stesso e concentrato su studi di cui non parlava con nessuno, aveva forse intuito prima d’ogni altro la strada per la creazione di una devastante arma nucleare; e ne era rimasto atterrito, e aveva voluto estraniarsi dal mondo prima che questo precipitasse nel baratro dell’era atomica.

Questa, almeno, è la tesi di fondo di uno dei maggiori autori del ‘900, Leonardo Sciascia, che allo scienziato e al suo dramma interiore ha dedicato uno dei suoi libri più illuminanti: La scomparsa di Majorana. Il senso della vicenda di Majorana è che non c’è futuro per l’umanità senza l’etica, senza la sincerità, senza la poesia. Questo spettacolo è un’indagine poliziesca, è un thriller ad orologeria, è un sogno ad occhi aperti, in una notte d’agosto del 1945.

Quattro personaggi, per tutta la notte, oltre l’alba, fino al tragico scioglimento di un enigma, daranno vita ad una sorta di processo: dove l’intruso si trasformerà da imputato in accusatore, da inquisito in voce della coscienza. Poco alla volta, emergeranno i tormenti di un genio che avrebbe potuto cambiare il destino dell’umanità, e che invece ha preferito essere un ragazzo schivo, per nulla competitivo o in cerca della gloria.

La scomparsa di Majorana con Negri, Cannata, Caruso, Rossi

“La scomparsa di Majorana”, adattamento e regia Fabrizio Catalano, con Loredana Cannata, Alessio Caruso, Roberto Negri, Giada Colonna; scene e costumi Katia Titolo, musiche Fabio Lombardi, voci fuori campo Gianni Garko, Massimiliano Buzzanca, Ivan Giambirtone, Roberta Badaloni. Produzione Associazione culturale LAROS di Gino Caudai. A Catania, Teatro Verga, il 5 marzo, e il 6 (ore 10).

ANNA CAPPELLI DI ANNIBALE RUCCELLO

Il noto testo Anna Cappelli di Annibale Ruccello – che insieme ad Enzo Moscato, è stato tra i più grandi rappresentanti della nuova drammaturgia napoletana – racconta la storia di un’impiegata nella Latina degli Anni ’60, in un monologo tragicomico – già assolo in passato per grandi attrici tra cui Anna Marchesini e Maria Paiato – in cui sentimenti, paure, fragilità, controllo, possesso, emancipazione e condizionamenti della società, sono gli ingredienti primari della pièce.

Nell’allestimento astratto e carnale interpretato da Giada Prandi, la regia è di Renato Chiocca (al Teatro Cometa OFF di Roma, dal 27 febbraio al 3 marzo). In bilico tra le asfissianti convenzioni borghesi dell’Italia del boom e la ricerca ossessiva di un amore tutto suo, Anna affida ad un uomo le sue aspettative per un futuro migliore, ma dovrà fare i conti con una realtà che non corrisponde ai suoi desideri e ai suoi ideali.

«Anna vive nell’Italia del boom, ma è vittima di un’implosione che la porta alla disperazione – scrive il regista -. Come molti di noi, oggi sovraesposti agli stimoli dei social network e di modelli di vita esterni al nostro reale quotidiano, Anna ha una sovraesposizione mentale ed emotiva che contrasta con le sue capacità di elaborazione». Tra commedia e tragedia, Anna – e insieme a lei il pubblico -verranno risucchiati in un vortice di forti emozioni.

ANNA CAPPELLI di Annibale Ruccello

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