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In Scena è la rubrica dedicata agli spettacoli dal vivo in programmazione sui palchi di tutta Italia: ecco la nostra selezione della settimana, dal 20 al 26 gennaio.
Teatro e danza
Zorro, il cavaliere mascherato di Antonio Latella
Il cavaliere mascherato e la lettera che lo simboleggia – l’ultima dell’alfabeto – sono lo spunto del nuovo lavoro in cui Antonio Latella, rileggendo in chiave contemporanea il mito dei supereroi, punta il riflettore sulle aree a rischio nella società del XXI secolo. Lo spettacolo, scritto a quattro mani con Federico Bellini, è una nuova produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
«La maschera di Zorro – spiega Latella – è un’evoluzione borghese dei nostri zanni. “Zanni” e “Zorro” iniziano con la stessa lettera: è lei la vera eroina. Hanno cercato di convincerci che gli ultimi saranno i primi e forse ci abbiamo creduto. Credo che la lettera Z racchiuda in sé tutte le implicazioni che possono derivare da questa frase.» Adottando le regole della danza, la regia scardina le convenzioni della messa in scena e propone sette quadriglie: i quattro attori, a turno il Poliziotto, il Povero, il Muto e il Cavallo, «ogni volta che scivolano sulla parola segno, devono ricominciare, cambiando identità e specchiandosi in quella degli altri. Dall’identità, il lavoro affonda sulla convenzione: quello che si fa sul palcoscenico resta tale, anche quando si tentino realismo o “verità”. Forse la sola possibilità d’esistere e sopravvivere è il dialogo che nasce dalla lingua, dall’alfabeto, o, come ci insegnano i supereroi, da una sola lettera. Allora, che sia la “Z”»

“Zorro”, di Antonio Latella e Federico Bellini, regia Antonio Latella, con Michele Andrei, Paolo Giovannucci, Stefano Laguni, Isacco Venturini, scene Annelisa Zaccheria, costumi Simona D’Amico, musiche e suono Franco Visioli, luci Simone De Angelis, movimenti coreografici Alessio Maria Romano. Produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa. A Milano, Piccolo Teatro Grassi, dal 23 gennaio al 16 febbraio.
Amadeus, ovvero Mozart e Salieri
Amadeus, la nuova produzione del Teatro dell’Elfo di Milano, debutta in prima nazionale il 21 gennaio (e in scena fino al 2 marzo). La storia, o meglio, la leggenda è nota: Antonio Salieri, maturo e affermato musicista, avvelena per invidia il giovane genio Mozart. A renderla universalmente celebre fu il film di Miloš Forman, che quarant’anni fa si aggiudicò otto premi Oscar. La pellicola si basava sulla pièce di Peter Shaffer (autore anche della sceneggiatura), grande successo teatrale prima al National Theatre di Londra nel 1979 e poco dopo a New York, ottenendo numerosi premi tra cui i Tony Award come miglior spettacolo, miglior regia a Peter Hall e miglior attore protagonista a Ian McKellen.
La leggenda che Shaffer rielabora nel suo testo forse si basa su voci e pettegolezzi dell’epoca (ma gli storici, in linea di massima, non le accreditano nessun fondamento); più probabilmente nasce da un’invenzione di Puškin che nel suo microdramma Mozart e Salieri ci racconta per la prima volta la favola. Per il loro spettacolo Ferdinando Bruni e Francesco Frongia scelgono questo capolavoro che ha il ritmo, la profondità e la tensione di un classico e gli imprimono l’andamento di un capriccio allucinato e sontuoso. Bruni è Salieri che, attraversando le età della vita, come un deus ex-machina evoca dal passato i personaggi della ‘sua’ storia. Accanto a lui Daniele Fedeli nel ruolo del giovane e irriverente Mozart. Antonio Marras veste gli interpreti con sontuosi costumi di un ‘700 immaginario.

Una settimana di Bontà 1975
Un testo inedito di Tonino Conte portato in scena da Emanuele Conte per la prima volta 50 anni dopo la sua stesura, proprio nell’anno in cui il genovese Teatro della Tosse si avvia a compiere i suoi cinquant’anni e in cui Conte ne avrebbe compiuti novanta. Sulla scia dell’omonimo volume di Max Ernst dei primi anni ‘30 – libro d’artista per immagini fortemente provocatorio e sovversivo del senso comune – Una Settimana di Bontà 1975 nasce come provocazione fin dal suo titolo, promettendo una atmosfera che viene demolita scena dopo scena, per dar vita ad un compendio spassosissimo dell’umana ferocia.
Un testo lucido, inusuale, incalzante ed estremamente comico, attualissimo nel mantenere un distacco costante, una “giusta distanza” che riconsegna un periodo plumbeo e contraddittorio della nostra storia senza mai farsene travolgere. Sette giornate in pieno stile teatro dell’assurdo si inseguono a gran ritmo, senza una logica apparente; sette quadri di battute fulminanti compongono un album spietato di quegli anni e delle loro ipocrisie, contraddizioni e continui inciampi. Uno sguardo senza sconti sulla realtà, sui volti della strada, sugli interni delle case ma, anche, un modo di fare teatro di Emanuele Conte con un gruppo di giovani attori su un palcoscenico in cui tutto viene svelato e mostrato.
In un’atmosfera che ricorda certo cinema di Bûnuel, uno spettacolo che attraversa a strappi paradossi e ipocrisie di un’epoca complessa e ambigua, che resta sempre sullo sfondo, come un ingombrante convitato di pietra seduto in platea a godersi lo spettacolo di sé stesso.

“Una Settimana di Bontà 1975”, di Tonino Conte, regia Emanuele Conte, con Ludovica Baiardi, Raffaele Barca, Christian Gaglione, Charlotte Lataste, Antonella Loliva, Marco Rivolta e Matteo Traverso, scene Emanuele Conte, disegno luci Matteo Selis, costumi Daniela De Blasio con la consulenza di Danièle Sulewic. Produzione Fondazione Luzzati-Teatro della Tosse. A Genova, Teatri di S.Agostino, dal 23 gennaio al 2 febbraio.
Le prigioni di Vincenzo Pirrotta, a Napoli
Il nuovo spettacolo di Vincenzo Pirrotta, Prigioni, è un intreccio di storie di segregazione, di sofferenza, di disagio, di dolore tanto chiare e invincibili per i protagonisti quanto indecifrabili e oscure per chi gli sta accanto.
«C’è una ragazza narcolettica che racconta la sua tormentata vita quotidiana e il patimento delle allucinazioni ipnagogiche, che si verificano nei primi momenti del sonno; un hikikomori rinchiuso nella sua stanza da sette anni che rifiuta il contatto con il mondo reale ma ne costruisce giorno per giorno uno tutto suo, fantastico e abitato da personaggi irreali che però rappresentano, ognuno, una faccia orribile dei mali del mondo, dei mostri che danzano nella sua mente; una donna racconta cosa significa professare una fede fino al martirio. Un fanatico religioso ossessionato dalla convinzione che il diavolo si stia mangiando la sua famiglia; un cardinale che ha vissuto tutta la sua vita nell’estasi del suo ministero, sfidando il divieto, non rinuncia ai piaceri della carne e vive la sua esistenza sentendosi continuamente inchiodato al suo peccato; una ragazza con lo sguardo rivolto al cielo stellato d’una sera estiva calda e afosa, col suo vortice di parole segnate dal dolore. Storie che si dipanano in uno spazio dominato da sostegni in ferro dai quali partono corde che creano un ring, un intrico somigliante a un’immensa ragnatela. Un intrico che, dà, icasticamente, il senso della prigione ma anche di un’incombente tela di ragno che avvinghia con le sue spire».

“Prigioni”, testo e regia di Vincenzo Pirrotta, con Filippo Luna, Vincenzo Pirrotta, Manuela Ventura, Anna Bocchino, Nicola Conforto, Eleonora Fardella, Alfredo Mundo; musiche originali composte e suonate dal vivo da Serena Ganci, spazio scenico Vincenzo Pirrotta, Mauro Rea, costumi Roberta Mattera, disegno luci Ciro Petrillo. Produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale. A Napoli, Teatro San Ferdinando, dal 16 al 26 gennaio.
Al via, a Torino, Palcoscenico Danza
La rassegna Palcoscenico Danza, diretta da Paolo Mohovich, progetto del TPE Teatro Astra, si apre il 21 gennaio al Teatro Astra di Torino col trittico Duo D’eden, Grosse Fugue, Elegia, messo in scena dalla MM Contemporary Dance Company. Un Adamo ed Eva immersi in un percorso di sensualità, eros, difesa, attacco, in un mondo non così sicuro e idilliaco. Quattro donne corrono, si accasciano, si risollevano in un turbine vitale e frenetico sulle note di Ludwig van Beethoven.
Duo d’eden e Grosse fugue sono i due capolavori della coreografa francese Maguy Marin, Elegia di Enrico Morelli è un invito alla cura, un viaggio onirico per ritrovare il proprio essere fragile e insicuro; la musica lascia anche spazio alle parole tratte dalle poesie di Mariangela Gualtieri. Si prosegue il 24 e 25 gennaio con una prima nazionale e con la compagnia spagnola Led Silhouette.
I fondatori e direttori Martxel Rodriguez e Jon López portano in scena Los Perros, una coreografia di Marcos Morau. Los Perros propone di raggiungere uno stato di resistenza. Come i cani che vagano, che si incontrano, per trovare nel cammino comune il senso della propria vita. Una danza appassionata tra ripetizione e catarsi: ballare fino allo sfinimento, abbaiare fino allo sconforto, vivere fino allo svenimento.

Una creatura tagliata in due
È affidata ai danzatori Filippo Porro e Cristina Cucco la nuova produzione di Abbondanza-Bertoni, i coreografi che così introducono la loro creazione: «Viro è un mostro, una creatura tagliata in due che ignara dello scisma, amplifica sdoppiandosi, la sua natura eroicamente autocompiaciuta e depressa. Moderno ferito centauro, contemporaneamente tata tatillo tatone (i tre nomi sono impiegati nella lingua napoletana, per designare la figura paterna, seppur con alcune oscillazioni di significato), virile e virale perché splendidamente banale; bello, sbarbato e ben pettinato, bipolarmente orientato, trascina le sue due parti in una sinergica continuità fisicamente sgrammaticata; con velleitaria movenza elegantemente chip, sciorina buone maniere da social e nel tormento di un pressante ritmo sonoro, agisce i suoi tic gestuali senza mai scomporre il grigio canna di fucile della capigliatura. Con i suoi pensieri, spettinati quelli sì, sfida gli interpreti e le loro maschere nel ciclo continuo dell’incarnarsi in forme nuove, attraverso il destino di una partitura spietata, del resto accessibile ed esigibile solo in uno stato di apnea creativa, unico lasciapassare verso il nuovo stato di coscienza gemellare e lobotomizzato. Blasfemo offertorio di un’eucarestia ribaltata di carne che diventa ostensione maschile senza soffio e spirito, inessenziale e vuota».
A Trento, Teatro SanbàPolis – CSC Santa Chiara, il 22 gennaio.

Panoramic Banana, Album degli abitanti del nuovo mondo
Dopo il debutto alla Triennale di Milano, Panoramic Banana, Album degli abitanti del nuovo mondo, giunge a Roma, il 24 gennaio allo Spazio Rossellini, l’ultima produzione del coreografo Michele Di Stefano, in cui rilancia il tema dell’altrove e del selvaggio da sempre centrale nella sua ricerca. Sulla scia della teoria dell’antropologo statunitense Michael Taussig sul re-incantamento della natura, sul ritorno all’idea di un mondo popolato da forze sfuggenti al controllo dell’uomo, il coreografo crea uno spettacolo vibrante che conduce gli spettatori a esplorare nuovi territori, sospesi tra l’euforia dell’ignoto e il desiderio di ritorno a una natura selvaggia.
Con in scena sei performer della compagnia Mk – Biagio Caravano, Sebastiano Geronimo, Luciano Ariel Lanza, Flora Orciari, Laura Scarpini, Francesca Ugolini – che si muovono sul palco con energia dirompente e impeccabile precisione, sulle note del punk rock britannico dell’iconica band anni ’80 The Creatures, le luci di Giulia Broggi e i video di Lorenzo Basili, Panoramic Banana tiene insieme un caleidoscopio di danze ed immagini immerse in una sonorità ibrida, calda come una fornace; una produzione incessante di sistemi coreografici che sembrano rimandare ad un nuovo folklore, evocativo di un mondo a venire, in cui il disordine delle cose è la regola, e l’ambiente si fa torbido e pulsante. Finalmente indisturbato nel suo desiderio di “rewilding”.

L’estinzione della razza umana
Testo del 2021, L’estinzione della razza umana di Emanuele Aldrovandi, autore teatrale, sceneggiatore, traduttore e regista, è una sorta di esorcismo – catartico e liberatorio – che ci aiuta a metabolizzare il nostro presente con ironia, lucidità e un pizzico di grottesco surrealismo, utilizzando un linguaggio tragicomico, con dialoghi affilati e serrati.
In un mondo incastrato dentro ritmi frenetici e disumani, che sottraggono tempo al pensiero e all’introspezione, riducendo il dialogo tra gli individui a litigi “da bar” o da “social network”, l’arrivo di un virus che trasforma le persone in tacchini blocca e distorce ogni cosa. Così, le due coppie protagoniste della storia, persone comuni, portatrici ognuna di una diversa posizione filosofica della vita, si ritrovano nell’androne di un palazzo assalite da domande, frustrazioni e paure.

“L’estinzione della razza umana”, scritto e diretto da Emanuele Aldrovandi, con Giusto Cucchiarini, Eleonora Giovanardi, Luca Mammoli, Silvia Valsesia, Riccardo Vicardi, scene Francesco Fassone, costumi Costanza Maramotti, luci Luca Serafini. Produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e Associazione Teatrale Autori Vivi. A Roma, Spazio Diamante, dal 23 al 26 gennaio.
Una storia femminile tra emancipazione e orrore
Un viaggio nelle gradazioni delle emozioni universali, dall’ironia pungente al dolore assordante, per indagare il ruolo della donna nel tempo: un archetipo di solitudine, indipendenza, autodeterminazione, alla ricerca di una via di fuga da un’esistenza bloccata. È Anna Cappelli di Annibale Ruccello, un gioiello teatrale sul corpo di un’attrice intensa, Valentina Picello, con l’impronta sapiente della regia di Claudio Tolcachir, drammaturgo, regista, attore e fondatore del Teatro Timbre 4 a Buenos Aires, indiscusso protagonista della nuova scena argentina.
La protagonista è una donna inquieta incastonata in un’anima di apparente leggerezza e dolcezza, che ha la sua rivincita su un maschio indegno; tuttavia, l’ostinata illusione di possederne l’amore la condurrà a un gesto macabro. Una storia femminile tra emancipazione e orrore che, a distanza di quasi quarant’anni dal frutto della raffinata penna di Ruccello, ne conserva immutata tutta la carica empatica e la forza contemporanea. Un crogiuolo di contraddizioni che si dipanano dalla pièce con umorismo affilato, per scavare nei meandri della mente di una donna che rincorre la felicità attraverso rinunce e compromessi (al Teatro India di Roma, dal 22 al 26 gennaio, produzione Carnezzeria, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatri di Bari).

Scene da un matrimonio secondo Bergman
In Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman, il regista Raphael Tobia Vogel esplora il tema delle dinamiche che caratterizzano la relazione di coppia e dei sentimenti familiari. Lo spettacolo trae ispirazione dal capolavoro del grande regista svedese, proposto come miniserie televisiva nel 1973 e successivamente trasformata nel celebre lungometraggio. La trama ruota attorno a Giovanni e Marianna e la loro relazione, un rapporto che apparentemente funziona, ma in realtà segnato da crepe e insoddisfazioni, rabbia, risentimento e tensioni accumulati nel corso degli anni. La storia di questi due personaggi è specchio universale delle relazioni amorose, che possono essere fragili, complicate e segnate da alti e bassi.
Lo spettacolo pone sotto la lente di ingrandimento il matrimonio, la famiglia borghese e le convenzioni sociali, criticando l’istituzione matrimoniale e mettendo in evidenza il peso delle maschere sociali che spesso impediscono alle persone di conoscersi veramente e di vivere una relazione autentica.

“Scene da un matrimonio”, traduzione italiana Piero Monaci, adattamento teatrale Alessandro D’Alatri, regia Raphael Tobia Vogel, con Fausto Cabra e Sara Lazzaro, scene Nicolas Bovey, luci Oscar Frosio, musiche Matteo Ceccarini, costumi Nicoletta Ceccolini. produzione Teatro Franco Parenti. A Milano, dal 21 al 26 gennaio, Teatro Franco Parenti.
Instrument Jam, della Compagnia Zappalà Danza
Da una rilettura scenica della Sicilia nasce Instrument Jam con cui il coreografo catanese Roberto Zappalà rilegge la sua terra in una coreografia interpretata dai danzatori della Compagnia Zappalà danza e supportato da musicisti dal vivo (a Treviso, Teatro Del Monaco, il 23 gennaio, per la rassegna di danza “Calligrafie”).
Zappalà muove dal concetto di mappa, come sinonimo di viaggio. Si può viaggiare anche attraverso i concetti, i luoghi comuni, gli stereotipi, le credenze, le abitudini di un luogo le cui mappe sono logorate per il troppo uso ed è urgente approntarne di nuove. Per interpretare un territorio servono strumenti e lo spettacolo Instrument Jam si fa carico, nel senso letterale e metaforico, di tre di questi, due tipici della tradizione siciliana, il marranzano (lo scacciapensieri) e il tamburo a cornice, e un terzo esterno a questa tradizione, inventato nel 2000, l’hang, per aprire strade e percorsi che la danza propone.
Instrument Jam, più precisamente, aggrega tutti gli strumenti del progetto Instruments di Zappalà, sviluppato dal coreografo in tre tappe consecutive: Instrument 1 con il marranzano (scoprire l’invisibile), Instrument 2 con l’hang (la sofferenza del corpo), e Instrument 3 con i tamburi (cage sculpture). Ed è proprio sull’impianto coreografico del primo, che ha avuto oltre 100 rappresentazioni e con il quale Zappalà ha avviato re-mapping sicily, un percorso volto a rileggere la Sicilia attraverso il suo linguaggio scenico. Qui il virtuoso di marranzani Puccio Castrogiovanni viene affiancato da altri due musicisti: Arnaldo Vacca ai tamburi e Salvo Farruggio all’hang. La partitura di Instrument 1 si espande così in una composizione polifonica, esplorando nuovi ritmi e sonorità. Gli echi musicali dei nuovi strumenti si riverberano sulla danza creando nuove suggestioni e risonanze.

Il dolore dello Stabat Mater nella danza della compagnia Fabula Saltica
Lo Stabat Mater è una meditazione, attribuita a Jacopone da Todi, che dà voce alle sofferenze di Maria mentre viene crocifisso il figlio Gesù. Questa preghiera ci interroga su come può una Madre sopravvivere al dolore che consegue all’ingiusta morte del proprio figlio e ci riporta tragicamente al presente. Ci permette di riflettere sull’arroganza e la superbia dell’uomo. Ci parla della morte, ma anche imprevedibile degli eventi che possa capitare a chi è ancora in vita, della solitudine del dolore, di chi nel dolore rimane, delle madri di guerre e delle violenze pubbliche e private a noi contemporanee, che non conoscono resurrezioni.
Con una progressione di quadri visivi e sonori che si succedono senza soluzione di continuità, lo Stabat Mater del coreografo Claudio Ronda per la compagnia Fabula Saltica (a Roma, Spazio Rossellini, il 26 gennaio), ci interroga su cosa resta dopo che si sopravvive alla morte di un figlio, di come riuscire a dare una forma e uno spazio al dolore. Il dolore archetipo di Maria, stigmatizzato nello Stabat Mater di Pergolesi, è il lamento di una voce umana che chiama alla condivisione.
Dal punto di vista musicale, il progetto propone una novità assoluta che, da un lato proietta l’opera in una dimensione contemporanea, dall’altro permette ai vari episodi di legarsi ancor più efficacemente alla danza. Si è scelto infatti di unire alcuni quadri con inserti musicali composti appositamente; tali parti conservano il sentire originale del testo di Pergolesi, non attingono da materiale altro, ma sono parte del tessuto sonoro originale, elaborato, rimaneggiato e rivissuto in chiave attuale.

Albania casa mia, storia di un padre e di un figlio
Scritto e interpretato da Aleksandros Memetaj con la regia di Giampiero Rappa, lo spettacolo Albania casa mia, è in scena al Teatro di Villa Lazzaroni di Roma, il 24 gennaio. 25 febbraio 1991: nell’Albania di quegli anni vige uno Stato in cui il regime comunista è collassato e il malcontento del popolo si traduce in manifestazioni, distruzione dei simboli dittatoriali ed esodi di massa, dopo quarantacinque anni di limitazioni e controlli, per primo quello di Brindisi.
Proprio a Brindisi, sbarca il trentenne Alexander Toto, scappato da Valona a bordo del peschereccio Miredita (“Buongiorno” in albanese), cui si accompagna un bambino di soli 6 mesi, Aleksandros Memetaj, appunto. Aleksandros racconta le sue esperienze italiane, da cittadino italiano tra gli italiani, da bambino tra i bambini, ma sempre da diverso tra gli uguali. Episodi di razzismo e bullismo, infatti, accompagnano interamente la sua crescita e il suo ambientarsi a Fiesso D’Artico, un piccolo paese di settemila anime tra Padova e Venezia.
Racconto delle vicende di due personaggi inizialmente distinti, Alexander e Aleksandros, padre e figlio, Albania casa mia è la narrazione di una vicenda universale cadenzata dagli sforzi economici per la partenza, le difficoltà e la paura del viaggio, le umiliazioni e la stanchezza all’arrivo provate da entrambi i protagonisti, che amano la propria terra ma al contempo la soffrono e per questo ripongono le loro speranze nella nuova patria, non senza patire il sentimento, forte, della lontananza.

Il conflitto interiore dell’uomo nella sua relazione con la natura
Un’indagine della relazione tra uomo e ambiente ispirata al lavoro del celebra artista Anselm Kiefer e del suo maestro Joseph Boeuys, interpretata da oltre 30 performer tra attori professionisti, cittadini e utenti dei centri di salute mentale e dipendenze, al termine di un percorso laboratoriale condiviso del Teatro come Differenza, coordinamento di compagnie e registi attivi nei centri di salute mentale di Firenze. In-Natura-Le, lavoro realizzato in collaborazione con la compagnia Versiliadanza, e diverse associazioni, col contributo artistico di Angela Torriani Evangelisti (a Firenze, il 26 gennaio, Teatro Cantiere Florida), propone una drammaturgia che pone al centro il conflitto interiore dell’uomo nella sua relazione con la natura, in un viaggio poetico e visivo che esplora il contrasto tra l’antropocentrismo e il richiamo primordiale del creato, che cerca costantemente rigenerazione e rinascita.
Lo spettacolo sarà in audiodescrizione poetica per essere fruito anche dal pubblico non vedente (info e ingressi: teatroflorida.it). Sul palcoscenico coperto di terra, coronato da grandi proiezioni, si susseguono interpreti che entrano ed escono dalla scena per denunciare lo sfilacciarsi dell’attenzione umana verso l’ambiente e dunque verso l’umanità stessa nel suo esserne parte, in un’escalation di azioni autodistruttive.
«Si parte dai testi – spiega Paolo Biribò – estratti da grandi autori ma anche scritti firmati dagli stessi utenti dei centri di salute mentale, per raccontare come l’essere umano non può e non deve perdere la propria connessione con la natura».

Uomo, natura e mito nella danza di Fabrizio Favale
Potenza e delicatezza nella nuova creazione, Alce, del coreografo Fabrizio Favale, esplorando il legame tra uomo, natura e mito (alla Fonderia di Reggio Emilia, sede della Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto, il 23 gennaio). Prende ispirazione dalla figura maestosa dell’alce, simbolo di forza e connessione con la natura, conducendo in un viaggio visionario e onirico. La creazione indaga la relazione tra umano e animale, tra il reale e il mitico, e si muove alla ricerca di nuovi linguaggi corporei, suggerendo una percezione dello spazio e del tempo che sfida i confini della realtà.
I dieci danzatori in scena costruiscono un paesaggio ultraterreno, un luogo sospeso dove le creature animali si intrecciano con figure zoomorfe ispirate a tradizioni arcaiche e invenzioni contemporanee. Attraverso un’alternanza tra ritmi tribali e movimenti eterei, si è trasportati in un mondo immaginifico dove il movimento diventa una riflessione profonda sulla nostra connessione con il regno animale e l’ambiente.
Un elemento scenografico sorprendente introduce lo spettacolo: il roteare di un fondale in alluminio, azionato dai performer, apre la scena a orizzonti sconosciuti, in cui danze e figure emergono e svaniscono in un’atmosfera nebbiosa e luminosa.
