11 maggio 2022

L’amore e la morte nell’arena visionaria di Angelica Liddell

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Il teatro come spazio di sangue e amore: all’Arena del Sole di Bologna, Angelica Liddell porta in scena tutto il furore della sua ricerca con "Liebestod", spettacolo carnale e visionario

Liebestod, foto di Christophe Raynaud de Lage

Artista di eccessi, dalla creatività vertiginosa. I suoi spettacoli, colti e furenti, sono «Rituali dell’angoscia, di tutto quello che devi nascondere nella quotidianità», come lei stessa ebbe a dichiarare in una delle sue prime apparizioni in Italia. Nei lavori di Angelica Liddell, autrice, regista e performer catalana, originaria di Figueras – città di Salvador Dalì -, sacro e profano coesistono per cercare di «…rivelare, con l’estetica, una parte dell’anima umana». Quella tormentata di Liddell brucia di mille visioni. Una visionarietà intrisa di elementi mitologici, spirituali, materici. Il suo è un teatro carnale, attraverso il quale cercare la bellezza tragica. E in essa l’amore. Perché solo con l’amore è possibile accettare la morte. In questa fisicità portata sul piano della vita come in altre creazioni, eros e thanatos coesistono anche in “Liebestod – El olor a sangre no se me quita de los ojos – Juan Belmonte. Historia(s) del Teatro III”, (Liebestod – L’odore del sangue non mi va via dagli occhi – Juan Belmonte), spettacolo del 2021 con debutto al Festival di Avignone, e in Italia ospitato da Emilia Romagna Teatro all’Arena del Sole di Bologna.

Angéeica Liddell
Angéeica Liddell foto di Bruno Simao

Quel “morire d’amore”, Liebestod, che si canta nell’aria finale dell’opera “Tristano e Isotta” di Richard Wagner – descrivendo il mitico adulterio dei due amanti -, è la chiave dello spettacolo, per raccontare, incontrando il matador Juan Belmonte, la storia di una grande e impossibile passione. Angélica la narra con tutti i suoi mezzi espressivi: col corpo esposto a sanguinanti ferite che lei stessa s’infligge; con la voce ora urlante, ora supplicante, ora adorante; nel lunghissimo, instancabile monologo autobiografico, quasi in stato di trance, infarcito d’invettive, di lacrime, di sberleffi, di afflizione; coi suoi gesti maledicenti, o improvvisamente benedicenti come quelli verso dei bambini (futuri toreri?) portati in braccio da una schiera di uomini in costume tipico spagnolo; assumendo posture impossibili, o accoglienti come una Pietà tenendo tra le braccia il corpo di un uomo mutilato.

Liebestod foto di Christophe Raynaud de Lage

Seduta, accanto a un tavolo, al centro della fiammeggiante scena che rappresenta lo spalto di un’arena da corrida, Angélica compie la sua liturgia bevendo del vino e mangiando del pane intinto nel sangue; pulendosi le ferite alle gambe e alle braccia. Tra una chiusura e l’altra di sipario con cambi di luce dai colori accesi, cita a piene mani Emil Cioran, Rimbaud, e passi della Bibbia, mentre si avvicendano, negli undici quadri della pièce, visioni improvvise: da una schiera di gatti tenuti al guinzaglio da un uomo con una lunghissima barba – figura che ritorna più volte -, all’apparizione di un monolite, di una testa di cavallo, di due carcasse di vitello calate dall’alto, di uno schermo con l’immagine di tre scimmie che ci guardano, di una grande teca trasparente con una bara trascinata da una donna col burqa. E altre misteriose raffigurazioni.

Liebestod, foto di Christophe Raynaud de Lage

Ma la presenza predominante è quella di un toro posticcio a grandezza naturale, oggetto di attrazione, repulsione e desiderio. Attorno e di fronte all’animale, interlocutore muto del suo lucido delirio, lei canta, balla, geme, discorre, si umilia, fino a identificarsi col toreador Belmonte – apice del toreare spirituale, perché «Voler morire, solo questo serve per toreare», – nel gesto spavaldo che lo rese famoso non sottraendosi davanti al toro atteso immobile.

Liebestod, foto di Christophe Raynaud de Lage

Nell’esplorazione delle origini della tauromachia c’è tutta la concezione del teatro della Liddell, perché «Il teatro come il toreare per il matador si innalza a esercizio spirituale nel quale è necessario addirittura dimenticarsi di avere un corpo». E aggiunge: «In un’epoca di decadenza come la nostra, di pallidume in tutte le arti, che non riconosce la morte nella vita, né l’estasi, né il mistero, né il tragico, mi rimetto a Valle-Inclàn, caro amico di Belmonte: “Se il nostro teatro provocasse il fremito delle corride di tori, sarebbe magnifico. Se avesse saputo trasportare codesta violenza estetica, sarebbe un teatro eroico come l’Iliade. E invece possiede tutta l’antipatia dei codici, della Costituzione della Grammatica”. In tempi di carenza di spiritualità, “l’assenza di Dio è l’assenza del toro”».

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