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Sacrificio, femminicidio o riscatto: la rilettura dell’Otello, dalla parte di Disdemona
Teatro
di Luigi Abbate
Oggi più che mai è tempo di riletture. E quanto più s’impongono le ragioni del rileggere, magari allontanandosi da un testo, tanto più s’indeboliscono quelle dell’autorialità. L’avevano capito, fra i tanti, il Kleist di Penthesilea, (e con lui il musicista Othmar Schoeck), o lo Wilde di Salome, (e con lui Richard Strauss), e prima di loro drammaturghi e musicisti che han tradotto, nei rispettivi generi, i miti greci. Il mito è, a un tempo, fonte e complice della rilettura. Così l’Autore se non muore, per lo meno soffre, e parecchio. Ma non tutta la sofferenza vien per nuocere.
Prendiamo ad esempio Otello, giusto perché, con Falstaff e Macbeth, è stato titolo di cartello del Festival Verdi di quest’anno a Parma, e al suo interno Ramificazioni, ossia quella fetta del festival, quest’anno intitolato Verdi e Shakespeare, votato appunto alle riletture. Avvezzo a incursioni in terra verdiana con lavori commissionati dal Festival, Lenz Teatro, “fabbrica di produzione artistica”, come si autodefinisce, punta i riflettori sulla protagonista femminile. Disdemona_cattiva stella s’innesta nel Festival Verdi come parte integrante di Atlante della violenza, progetto triennale di Lenz intorno al tema «dell’atto violento, dell’eroe mitico e della guerra».
Precedente immediato, in giugno, Iliade#1 Cavalli, intenso teatro da camera che, offrendosi a pochi spettatori per volta, emoziona per la prossimità del pubblico con l’azione e con l’oggettistica che la abita, dalle erme zoologiche a un vero cuore equino. La singolare sacralità che si consumava nell’affascinante spazio del Museo di Veterinaria, scena di quella produzione, lascia il posto in Disdemona a un approccio laico, immerso in un clima carico di tensioni capaci di coinvolgere, grazie all’inconfondibile segno registico di Maria Federica Maestri.

Lo spazio scenico è un opificio con 12 operaie tessili che denunciano una quotidianità di sfruttamento da parte di un Otello/padrone sullo sfondo, schermato, sorta di iconostasi drammaturgica. Imagoturgia la parola coniata da Francesco Pititto, autore del testo, che sintetizza Otello e Jago nella voce tenorile di Lorenzo Marchi, laddove Desdemona, ben lontana da una morte annunciata, paladina del riscatto – orgogliosa la collettiva ostensione finale del pugno sinistro -, è sdoppiata nella densa recitazione di Valentina Barbarini e nel canto robusto del soprano Giulia Costantini. Le voci cantano “a cappella”, adagiate su un tappeto sonoro elaborato da Andrea Azzali su materiale verdiano scelto da Adriano Engelbrech.
Il nome del titolo riporta alla lezione originaria di Giraldi Cinthio, e pone l’accento sull’infausto che si cela nel prefisso “dis” (p.es. “disgrazia”), stigma che segna quel personaggio, ma che stavolta impone al mito diverso destino. Mito come pretesto, che qui si sposa con le prerogative di Lenz, fedele a un credo teatrale che se da un lato si riconosce ancora nella lingua delle avanguardie, ne supera la datazione con la forte adesione emotiva che da sempre è marchio espressivo di questo teatro.
Agli inizi del suo teatro anche Federico Tiezzi aveva fatto ricorso al mito, non solo greco, e lo aveva fatto conformemente con le estetiche del teatro d’avanguardia. Passato all’opera, il regista aretino piega le “rabbie giovanili” alle ragioni di un teatro che, in una regia sapiente, non può prescindere dalle regole imposte dalla musica, dalle sue forme.
Esemplare in tal senso la sua regia dell’Otello. Fino a pochi anni fa, anche a Parma, si parlava della “disgraziata” fine di Desdemona come di un sacrificio. A questa immagine ormai desueta si va sostituendo quella, orrenda come il gesto maschile che la genera, di femminicidio. Non è dato sapere se si sia posto il problema ma Tiezzi ben lavora su gesti e spazi offerti dal sapientissimo libretto di Boito, seppur con qualche licenza (l’originario “soffocare” Desdemona non è strangolare), e nell’ultimo atto fa ricorso esplicito alla citazione dell’immagine: lui parla di Gregory Crewdson, ma ancor prima è chiaro il richiamo al Morning Sun di Hopper.

La scena di Margherita Palli, che isola in un passe-partout nero la desolata solitudine della protagonista nell’ultimo atto, coglie un’atmosfera intimistica forse riconducibile alle provenienza della Canzone del Salice – il ricordo della madre Barbara -, ma riporta la memoria a quella di Stephan Mayer in un’indimenticabile Wozzeck di Berg (opera pure evocata da Tiezzi) al Festival di Salisburgo del 1997, regia di Peter Stein, direzione di Claudio Abbado. Echi del Tiezzi dei Magazzini criminali si trovano nelle tardobrechtiane parole-chiave – morte/nulla/dolore… – che appaiono su fondale e tendoni rosso sangue. Inutili e fastidiose.
A dir poco movimentata la replica seguita, sabato 11. Scomparso dai radar dopo la prima, Fabio Sartori nel ruolo del titolo lascia un vuoto rimediato con ben due altri sostituti, uno dei quali, Brian Jagde, quella sera. Ampia sufficienza per l’impegno, anche se è un Otello in scena a volte incerto e in voce non impeccabile. All’ultimo viene pure a mancare il ruolo di Roderigo, e si chiama al volo un corista del Regio, che canta da un palco, con leggio e suggeritore. Recita andata in porto, nonostante la tempesta, non solo sulla scena, grazie all’esperienza del direttore Roberto Abbado e all’ottima prova di Mariangela Sicilia, Desdemona. Convincente anche la prova di Ariundbaatar Ganbataar, Jago.
Sacrificio? Femminicidio? Riscatto? A Parma un altro piccolo passo avanti nei territori delle “riletture”.














