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Non c’è la guerra nelle opere di Safet Zec (Rogatica, 1943, vive a Venezia).
Non almeno quella tradizionalmente intesa, fatta di scene violente e battaglie
più o meno eroiche. Eppure storie di guerra ne hanno plasmato profondamente la
vita e, inevitabilmente, condizionato la poetica artistica. Dalla nascita,
durante la Seconda guerra mondiale, alla più recente fuga dai bombardamenti su Sarajevo
per cercare rifugio in quella Venezia, nuovo inizio più che esilio, che ora ne
celebra l’arte.
Le tracce di quei conflitti emergono indelebili sotto i
decisi tratti di pennello che sembrano ribadire la formazione accademica e,
dunque, la sudditanza artistica ai sempiterni maestri di classica ascendenza.
Riflettono quella guerra lontana dai campi di battaglia, che agisce
nell’intimo, che frantuma l’esistenza quotidiana isolando l’individuo,
dissolvendo l’identità di un intero popolo.
Attraverso le 130 opere esposte al secondo piano del museo
marciano, l’occhio dell’artista bosniaco si sofferma sulle “piccole cose” che
compongono il suo mondo; cerca in esse rifugio per ricomporre la frammentazione
di sé e di un popolo intero, lacerato in mille etnie.
Tuttavia non c’è consolazione in esse: la sua
caratteristica pennellata vigorosa e vivace, i colori freddi, spesso tendenti
alla monocromia, i grumi di colore che si dilatano in figure e immagini rendono
i soggetti di Zec immagini di un’umanità solitaria e alienata, senza identità,
come quei volti nascosti nell’ombra o celati da bianchi panneggi che con
frequenza ritornano nelle sue opere.
Il mondo di Zec è di una bellezza inquietante: si resta
affascinati dalle sue grandi tele raffiguranti immagini e atmosfere veneziane,
malinconica elegia alla città-rifugio degli anni dell’esilio; ci si sofferma
estasiati a contemplare i suoi panneggi, i suoi “tavoli d’artista”, quei
piccoli tasselli che compongono il suo mondo. Così effimero eppure così
tenacemente ribadito.
È però palpabile il senso di solitudine, la tensione
emotiva che si cela dietro i suoi soggetti: una barca solitaria, una sedia, un
cesto di pane, un letto sfatto, un panno abbandonato a terra, un pane spezzato.
Si è parlato di pittura “sacrale”, di più o meno impliciti
riferimenti evangelici. Indubbiamente l’arte di Zec, assolutamente laica,
riesce allo stesso tempo a essere pervasa da una profonda e personale
religiosità. È un artista che “sa guardare” e trasfigurare la realtà,
rendendola riflesso del suo mondo: “Non raffiguro temi religiosi, la
religiosità è nello sguardo concentrato su piccole cose semplici: un piatto,
una pagnotta, un cestino, una mano, una finestra. Dietro la sofferenza cerco
sempre la bellezza. Prima della guerra mi definivano ‘realista poetico’. Dopo,
ogni pennellata è preghiera”.
Non almeno quella tradizionalmente intesa, fatta di scene violente e battaglie
più o meno eroiche. Eppure storie di guerra ne hanno plasmato profondamente la
vita e, inevitabilmente, condizionato la poetica artistica. Dalla nascita,
durante la Seconda guerra mondiale, alla più recente fuga dai bombardamenti su Sarajevo
per cercare rifugio in quella Venezia, nuovo inizio più che esilio, che ora ne
celebra l’arte.
Le tracce di quei conflitti emergono indelebili sotto i
decisi tratti di pennello che sembrano ribadire la formazione accademica e,
dunque, la sudditanza artistica ai sempiterni maestri di classica ascendenza.
Riflettono quella guerra lontana dai campi di battaglia, che agisce
nell’intimo, che frantuma l’esistenza quotidiana isolando l’individuo,
dissolvendo l’identità di un intero popolo.
Attraverso le 130 opere esposte al secondo piano del museo
marciano, l’occhio dell’artista bosniaco si sofferma sulle “piccole cose” che
compongono il suo mondo; cerca in esse rifugio per ricomporre la frammentazione
di sé e di un popolo intero, lacerato in mille etnie.
Tuttavia non c’è consolazione in esse: la sua
caratteristica pennellata vigorosa e vivace, i colori freddi, spesso tendenti
alla monocromia, i grumi di colore che si dilatano in figure e immagini rendono
i soggetti di Zec immagini di un’umanità solitaria e alienata, senza identità,
come quei volti nascosti nell’ombra o celati da bianchi panneggi che con
frequenza ritornano nelle sue opere.
Il mondo di Zec è di una bellezza inquietante: si resta
affascinati dalle sue grandi tele raffiguranti immagini e atmosfere veneziane,
malinconica elegia alla città-rifugio degli anni dell’esilio; ci si sofferma
estasiati a contemplare i suoi panneggi, i suoi “tavoli d’artista”, quei
piccoli tasselli che compongono il suo mondo. Così effimero eppure così
tenacemente ribadito.
È però palpabile il senso di solitudine, la tensione
emotiva che si cela dietro i suoi soggetti: una barca solitaria, una sedia, un
cesto di pane, un letto sfatto, un panno abbandonato a terra, un pane spezzato.
Si è parlato di pittura “sacrale”, di più o meno impliciti
riferimenti evangelici. Indubbiamente l’arte di Zec, assolutamente laica,
riesce allo stesso tempo a essere pervasa da una profonda e personale
religiosità. È un artista che “sa guardare” e trasfigurare la realtà,
rendendola riflesso del suo mondo: “Non raffiguro temi religiosi, la
religiosità è nello sguardo concentrato su piccole cose semplici: un piatto,
una pagnotta, un cestino, una mano, una finestra. Dietro la sofferenza cerco
sempre la bellezza. Prima della guerra mi definivano ‘realista poetico’. Dopo,
ogni pennellata è preghiera”.
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Safet
Zec – Il potere della pittura
a cura di Giandomenico Romanelli
Museo Correr
Piazza San
Marco, 52 – 30124 Venezia
Orario: tutti
i giorni ore 10-17 (la biglietteria chiude un’ora prima)
Ingresso:
intero € 5; ridotto € 3
Catalogo Skira
Info: tel. +39
04124005211; fax +39 0415200935; mkt.musei@comune.venezia.it; www.museiciviciveneziani.it
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