29 aprile 2001

Preserving the immaterial Conservare le opere d’arte effimere

 
Come conservare e archiviare un sito Web? Come far sopravvivere le opere d'arte tecnologiche alla rapidissima obsolescenza dei dispositivi? Artisti, critici e curatori hanno affrontato il problema in una tavola rotonda al Guggenheim di New York....

di

“Allowing art to expire is beautiful but stupid” Jon Ippolito, 1999

Il problema della conservazione delle opere d’arte non oggettuali non è nuovo per le istituzioni che si confrontano con le strategie degli artisti contemporanei. La cosiddetta “dematerializzazione” dell’arte è un processo in atto da quasi mezzo secolo, e che abbiamo visto attuarsi in innumerevoli esperimenti: dagli happening alle performance, dall’arte concettuale alla videoarte, fino alla net.art.
Trovare il giusto “contenitore” per conservare questo tipo di opere -o quantomeno una loro documentazione- rappresenta uno spinoso problema, che diventa di anno in anno più complesso man mano che le sperimentazioni artistiche si arricchiscono di dinamiche eterogenee e si avvalgono delle tecnologie più diverse. Una difficoltà in più è inoltre rappresentata oggi dalla rapida obsolescenza cui vanno incontro i dispositivi elettronici e informatici, costringendo il possessore dell’opera ad un progressivo “adattamento” a nuovi supporti e nuove tecnologie. Robert Morris
Variable Media, l’iniziativa promossa dal Guggenheim Museum di New York, rappresenta dunque un coraggioso tentativo di immaginare delle possibili soluzioni e di approntare, di comune accordo con gli artisti, degli standard per una corretta conservazione e ri-esposizione delle opere “effimere”.
La conferenza si è svolta alla fine di marzo e ha visto la partecipazione di una folta schiera di professionisti del settore come Steve Dietz, curatore della sezione New Media del WAC di Minneapolis e Benjamin Weil dello SFMOMA, ma anche di artisti come Robert Morris e Mark Napier.
Nel tentativo di mettere a fuoco le diverse problematiche che ogni opera di volta in volta pone al curatore di turno, che si trova di fronte al difficile compito di conservarla ed esporla, sono stati individuati otto “Case Studies”. Le opere analizzate vanno dalla performance di Ken Jacobs, all’installazione interattiva di Felix Gonzales-Torres fino ai Web sites di Napier.
Sono state inoltre individuate alcune categorie che permettono di raggruppare i lavori secondo la loro caratteristica più evidente e vincolante: installativa, performativa, interattiva, riproducibile, duplicabile, basata su un codice informatico, o “networked”, cioè dipendente ontologicamente da una Rete. Sulla base di queste caratteristiche sono state poi elencate quattro possibili strategie: archiviare, realizzare “emulazioni” dell’opera originale, trasferire su nuovi supporti, e soprattutto reinterpretare le esigenze di ogni lavoro cercando di rispettarne le caratteristiche audiovisuali e contestuali di partenza. Meg Webster, Stick Spiral, 1986. Installation.
Durante la conferenza non ci si è limitati a discutere sulle possibili soluzioni, ma si è anche approntato un primo strumento concreto che possa venire in aiuto di istituzioni museali e collezionisti privati. Si tratta di un questionario standard tramite la cui compilazione ogni artista potrà esprimere indicazioni per il trattamento futuro della propria opera, suggerendo soluzioni per “riadattare” il lavoro una volta che il medium originale non sia ripristinabile o sia divenuto obsoleto.

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http://www.guggenheim.org/variablemedia
http://www.three.org/


Valentina Tanni

[exibart]

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