30 gennaio 2015

CURATORIAL PRACTISES

 
di Camilla Boemio
Una rubrica che indaga un lavoro molto attuale e discusso. A inaugurarla è il filosofo Mario Perniola

di

Camilla Boemio, curatrice e scrittrice, presenta una nuova sezione trasversale nella quale, adottando la forma dell’intervista, attiva un dibattito con varie voci della teoria dell’arte. Per capire come funzioni la curatela e quali sono le metodologie con cui  possiamo criticamente analizzare criticamente il lavoro curatoriale oggi.
L’ estetica – i due filoni di pensiero. Connessioni
Il primo interlocutore è Mario Perniola, filosofo, saggista e scrittore. Docente di Estetica alla Università di Roma di Tor Vergata.
Il suo prossimo libro s’intitola L’arte espansa, di prossima pubblicazione dalla casa editrice Einaudi. L’estetica contemporanea, edito dal Mulino nel 2011, è stato nuovamente ripubblicato, con il seguente titolo 20th Century Aesthetics. Towards A Theory of Feeling, dalla casa editrice Bloomsbury, nel 2013 a London-New Delhi-New York-Sydney; cui seguiranno le imminenti traduzioni in cinese dalla Fudan University Press, in spagnolo dalla Machado Libros, e in turco da ILETISIM Yayinlari. Perniola dirige la rivista di estetica e di studi culturali Ágalma. http://www.agalmaweb.org
Parliamo di estetica, quali connessioni rintraccia con l’arte, in riferimento al suo testo, edito dal Mulino, Estetica contemporanea. Un panorama globale.
«Il problema dinanzi a cui si trova oggi l’estetica è quello di elaborare una nozione di arte che vada al di là della prospettiva eurocentrica in cui tuttora è confinata, che sia realmente globale. Il mio libro tratta una esposizione critica delle principali tendenze estetiche del Novecento, articolate su cinque nozioni fondamentali (vita, forma, conoscenza, azione e sentire), a cui si aggiunge un ampio capitolo sul pensiero estetico extra-europeo (giapponese, cinese, indiano, islamico, brasiliano, coreano e del Sud-Est asiatico). 
Thomas Struth, Hermitage
Quanto ritiene sia cambiato in Italia l’approccio curatoriale, dagli anni’90 ad oggi? E quanto il contesto storico influenza un notevole segmento delle pratiche curatoriali? 
«Nella pratica curatoriale assistiamo ad un cambiamento radicale della stessa nozione di “arte”, ad un mutamento della categoria cognitiva di ciò che finora è stato chiamato “arte”. Tale fenomeno non riguarda soltanto l’Italia. È in corso una profonda destabilizzazione  di quel “mondo dell’arte” (Artworld), che si era costituito nei primi anni Sessanta con la Pop Art e con tutte le mode artistiche successive, secondo il quale è “arte” tutto che è riconosciuto come tale dai mediatori istituzionali (musei, gallerie, critici, gallerie, esposizioni, storici…). Oggi si confrontano due strategie curatoriali opposte. La prima tende ad attribuire  la qualifica di “artisti” a tutti coloro che si autodefiniscono tali: per esempio, la Saatchi Gallery di Londra nel 2006 aprì una sessione open-access, dove via Internet qualsiasi “artista” poteva creare una sua pagina personale contenente il suo curriculum e un numero limitato di opere, senza essere sottoposto ad un giudizio o ad una valutazione. Questa impresa nota come Your Gallery coinvolse più di 60mila “artisti” e costituì un evento mediatico di grande rilievo perché dava la possibilità di essere visti in tutto il mondo. Essa istituiva una specie di democratizzazione radicale che permetteva a tutti gli “artisti” una visibilità virtuale illimitata. L’altra strategia, ben più radicale e innovativa, ha trovato la sua manifestazione più importante nella Biennale di Venezia del 2013, intitolata il “Palazzo Enciclopedico”, in cui sono stati esposti 158 “articoli” la stragrande maggioranza dei quali nulla avevano che vedere con ciò che è stato definito finora come “arte”. Gli autori in grandissima parte non hanno mai pensato di essere degli “artisti”, a cominciare di Marino Auriti, il cui modello architettonico del 1950 ha dato il titolo e l’immagine all’intera mostra. Salta così la distinzione fondamentale tra Insider Arte e Outsider Art, che erano rimasti due campi ben distinti: vengono inoltre inseriti nella categoria degli “artisti” anche dilettanti, sensitivi, veggenti, utopisti, inventori di religioni, bohémies, avventurieri, futurologi e perfino i devoti che introducono gli ex-voto nei santuari, gli psicoanalisti e i fisici alternativi, insieme a pochi “artisti” di fama internazionale».
Thomas Struth, Kunsthaus Zurigo
Dove si colloca l’arte in un contesto socio–politico esasperato dal divismo e dalla spettacolarizzazione del vacuo?
«I “mondi dell’arte” in generale anticipano gli avvenimenti socio-politici, ma sono poi superati dal media. Per esempio, la tendenza Post-human (nota anche come “ritorno al reale”), che considerava lo shock come l’esperienza estetica per eccellenza, è diventata obsoleta dopo l’11 settembre 2001, perché l’arte non può fornire un trauma paragonabile a quell’avvenimento. Divismo e anti-divismo sono due strategie promozionali che riguardano tutti i campi della cultura».
Esiste una possibilità di grandezza per l’arte attuale? 
«Il processo di azzeramento del valore “artistico” non riguarda solo l’arte contemporanea ma anche l’arte del passato. Il boom turistico ha condotto ad una fruizione estremamente superficiale e frivola delle opere, divenute tutte indiscriminatamente oggetto di un’attenzione insipiente  ed insulsa. Così la visita di un museo o di un qualsiasi luogo dotato di speciali caratteristiche non è più il risultato di una scelta individuale motivata da un interesse, da un desiderio, o anche da una curiosità, ma un compito da eseguirsi passivamente perché compreso nel pacchetto turistico del consumatore. Nel complesso l’arte non basta più a se stessa, ma ha bisogno, per poter acquisire credibilità e autorevolezza di un lavoro di “artistizzazione” che può essere operato solo dalla scienze umane e dalla filosofia».
Thomas Struth, Kunsthaus Zurigo
In quale fase siamo, in Europa ed in Italia, relativa al rapporto tra sapere e potere? Se la cultura genera la natura (Bruno Latour) siamo in una fase di negazione di questa ultima? Un esempio può venire dalla crisi globale relativa al cambiamento climatico e alle politiche dell’acqua. 
«Non basta apprendere, bisogna saper apprendere: l’essenziale è il processo attraverso cui il sapere si trasforma in un potere. La conoscenza ha un aspetto strategico che trasforma chi la detiene in un guerriero, altrimenti è pura erudizione, che è pur sempre qualcosa di importantissimo, ma non incontra la sfera dell’effettualità. Quanto alle problematiche ecologiche, esse trovano le loro manifestazioni più emozionalmente coinvolgenti nelle esperienze estreme di disconnessione volontaria dai mezzi di comunicazione. Non per nulla Thoreau, Hamsun e Jünger sono diventati autori di culto».
Una discussione esplicita, sul piano teorico, sulla comunità è un requisito urgente nel contesto della ‘curatela’; articolazioni culturali sempre esplicite, o implicite, vengono affrontate e producono la comunità stessa. È stato Jacques Rancière, in particolare in “The Politics of Aesthetics: The Distribution of the Sensible” a sottolineare l’importanza della visibilità e dell’ udibilità, in quanto consentono o impediscono l’accesso ad una comunità. Me ne parla? 
«Il legame sociale che può nascere dalla collaboratore e dalla fruizione artistica non ha nulla che fare con la “comunità”, una nozione obsoleta che è stata trattata nel migliore dei modi della sociologia della fine dell’Ottocento: oggi è possibile solo la “comunità” delle persone che non hanno niente in comune! Ma essa è un’accozzaglia di malintesi, un coacervo di equivoci, una convergenza effimera di interessi. Quanto alla vista e all’udito, questi sono i sensi nobili individuati già da Platone, perché caratterizzati dalla distanza. Queste caratteristiche anticipano l’idea centrale dell’estetica kantiana: il disinteresse nei confronti dell’esistenza dell’oggetto».

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