29 marzo 2017

CURATRIAL PRACTICES

 
London Calling. Ma l’Italia non è da buttare via
Una conversazione di Camilla Boemio con Francesco Dama

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Francesco Dama è un giovane critico e curatore indipendente che lavora a Londra. Negli ultimi anni, un numero sempre maggiore di curatori ed artisti italiani hanno deciso di trasferirsi all’estero. Diventa inevitabile affrontare l’argomento, e indagare come stia cambiando Londra, dopo l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea.
Puoi parlarci del tuo percorso curatoriale? 
«Ho studiato storia dell’arte a Firenze e a Roma, città in cui ho maturato esperienze lavorative in gallerie d’arte pubbliche e private. Dopo la laurea magistrale mi sono trasferito a Londra, dove vivo tutt’ora. Qui curo le mostre per una galleria d’arte contemporanea, scrivo e lavoro a progetti indipendenti. Le gallerie commerciali sono molto attente alla curatela delle proprie mostre – che è indispensabile – nonostante non vi pongano troppa enfasi. Mi piace l’idea di lavorare a fianco degli artisti e a ritmi sostenuti, ma nell’ombra.
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Sembra ormai che per occuparsi d’arte (e non solo) con un certo rigore, e una tranquillità, sia indispensabile lavorare all’estero. Quanto è diverso il sistema dell’arte Inglese rispetto a quello Italiano? 
«Non sono pienamente d’accordo. Conosco molte persone in Italia che si occupano d’arte con competenza, professionalità e rigore, nonostante le difficoltà economiche e burocratiche. Certo, il sistema dell’arte Italiano è molto diverso da quello Inglese, che è a sua volta diverso da quello londinese. La capitale britannica vive una realtà eccezionale, diversa da quella del resto del Paese e da qualsiasi altra capitale europea. A Londra si concentra una buona parte di quell’establishment internazionale che forma il mondo dell’arte: collezionisti e art advisors – per lo più colti e attenti – gallerie private con fondi spesso maggiori dei pur ottimi musei pubblici della città, case d’aste, ecc. Ovviamente, questo non favorisce gli artisti più giovani, che hanno difficoltà ad affrontare le spese di uno studio, per esempio. C’è poi una cospicua disparità in termini di risorse fra Londra e il resto del Paese. Èl un problema generale – forse il più grave in U.K. – che ha ripercussioni anche sul sistema dell’arte. Fortunatamente, da qualche anno una serie di iniziative pubbliche e private sta cercando di bilanciare questa irregolarità, nonostante recenti tagli ai fondi pubblici stiano cominciando ad avere effetti negativi. Non è difficile prevedere come la Brexit aggraverà ancora di più la situazione. Dal canto suo, l’Italia ricopre un ruolo marginale all’interno del mondo dell’arte contemporanea, per motivi economici e culturali. Il nostro Paese non è abituato a ragionare e a riflettere sull’arte contemporanea, in primis perché non la conosce e forse perché è distratto dall’enorme responsabilità di occuparsi della conservazione del suo straordinario patrimonio artistico. Ciò non preclude affatto lo sviluppo di realtà qualitativamente eccellenti in ambito contemporaneo, che di solito sono a iniziativa privata. Anzi, credo che proprio questa posizione marginale crei dinamiche interessanti. Le pressioni del mercato tipiche di città come New York o Londra, semplicemente non esistono in Italia, e questo è un fatto del tutto positivo». 
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L’attuale fase socio-politica internazionale è una graduale degenerazione di un sistema verso il massimo disordine e l’ordine Istituzionale conservatore. Come sta rispondendo il sistema dell’arte Inglese alla Brexit? Come stanno cambiando gli investimenti d’arte, nelle gallerie e nelle Istituzioni? 
«Qualche settimana prima del referendum sulla Brexit, Wolfgang Tillmans inaugurava una mostra da Maureen Paley fortemente politica. L’ingresso della galleria era tappezzato da posters contro la Brexit, disegnati da numerosi amici artisti britannici, fra cui Antony Gormley, Bob e Roberta Smith, Martin Creed. È stata una fra le reazioni più intelligenti e sensibili al problema che abbia visto. Dal punto di vista del mercato, la sterlina debole ha significato un maggiore interesse dei collezionisti internazionali verso le gallerie britanniche. Le aste a Londra immediatamente successive all’esito del referendum, lo scorso giugno, sono andate particolarmente bene, ad esempio. La maggior parte dei musei e delle istituzioni pubbliche andrà incontro a una sorte diversa, perché dovrà fare a meno delle sovvenzioni Europee. In ogni caso, la questione Brexit è ben lontana dall’essere risolta ed è quasi impossibile fare previsioni. Resta un senso generale di smarrimento e incertezza che è difficile da gestire, in arte come in ogni altro ambito culturale».
Quali sono secondo te le mostre museali più interessanti da visitare in questo periodo a Londra, e le tre mostre da non perdere assolutamente nelle gallerie?
«Wolfgang Tillmans alla Tate Modern, senza dubbio, e Alex Baczynski-Jenkins da Chisenhale Gallery. Nella gallerie: Urs Fisher da Sadie Coles, Simon Dybbroe Møller da Laura Bartlett e Do Ho Suh da Victoria Miro». 
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Quali sono gli artisti emergenti più interessanti secondo il tuo giudizio?
«Prem Sahib e Celia Hempton fanno parte di un gruppo di artisti/amici che ha studiato e lavora a Londra, scambiandosi opinioni e consigli. Sono molto attento al lavoro del fotografo Paul Mpagi Sepuya, che ha una personale in corso a Yancey Richardson Gallery, New York. Gli americani Grear Patterson e Charlie Roberts lavorano con il loro retaggio culturale con leggerezza e intelligenza, mettendo in discussione l’identità americana. In Italia, fra gli altri, seguo il lavoro di Gianni Politi e Gabriele de Santis». 
Come stanno evolvendo le pratiche curatoriali? 
«Non sono sicuro stiano evolvendo in meglio, di certo cambiano, e cambiano continuamente, come è naturale che sia. Nell’ultimo periodo il ruolo del curatore si è estremamente dilatato. Il concetto stesso di curatela è stato rivisto e ridiscusso, al punto da diventare un fenomeno culturale. Il verbo “curare” si applica a tutto, da Instagram alle playlists di musica, dalle ricette di cucina ai vestiti. È uno dei termini più amati dalla pubblicità. Il rischio è di svuotare la parola del suo significato, dimenticandosi del valore professionale del curatore. Tornando alle pratiche curatoriali, al momento si discute molto sulla discriminazione di genere nell’arte contemporanea. È paradossale come il mondo dell’arte, per quanto liberale, sia ancora fortemente discriminatorio nei confronti delle artiste donne. In questo i curatori, soprattutto in ambito istituzionale, assumono un ruolo di rilievo, dovendo affrontare numerosi problemi etici e di metodo. La recente espansione della Tate Modern, ad esempio, ha spinto il museo a ripensare l’ordinamento della propria collezione, per adottare un approccio più inclusivo ed equo, aumentando il numero di lavori di artiste donne e di artisti non occidentali. Tali decisioni curatoriali affrontano alcune problematiche fondamentali della storia dell’arte, contribuendo a ridiscutere i filtri culturali con cui interpretiamo e studiamo le opere stesse (basti pensare, in primis, al canone modernista, composto esclusivamente da uomini bianchi occidentali). Nonostante le buonissime intenzioni, il riallestimento del museo spesso confonde i visitatori, che sono travolti da una successione infinita di opere d’arte prive di una narrazione coesa».
Camilla Boemio

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