28 luglio 2012

Una strana coppia a Venezia

 
L'arte visiva di Stefano Arienti e la coreografia di Foofwa d'Immobilité si incontrano alla Fenice. Nasce un lavoro fatto di forti momenti di collaborazione e altrettanti densi gradi di separazione. A confronto sono due linguaggi diversi che condividono un paradosso. Poi Arienti ha uno spazio tutto suo a Palazzetto Tito. Con una mostra che pare un viaggio, nel mondo e nell'io. Nel ricordo e nel presente necessario [di Adriana Polveroni]

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Uno piega, incolla, taglia, perfora, ricompone. Quanta necessità manuale ci sia all’origine del lavoro di Stefano Arienti, me ne sono accorta a Venezia, seduta accanto a lui a cena: la busta vuota dei grissini è diventata una fisarmonica, poi un nastro e poi qualcos’altro. E, sorprendentemente, questo accanimento manuale non apre a qualcosa di ossessivo, ma di lieve. Come è tutto il suo lavoro. L’altro destruttura, cambia, sfalda: le immagini, i corpi quasi fino a sfinirli, la musica, la scena, il progetto stesso. “Decompone”, per dirla con le sue parole, quelle del coreografo svizzero Foofwa d’Immobilité.

Lui e Arienti, artisti uniti non da affinità elettive ma antinomiche, ma anche da un palese innamoramento per il fare, hanno dato vita a uno spettacolo di scena ancora oggi (in tutto purtroppo solo due sere) al teatro La Fenice di Venezia, che in omaggio al luogo (ma non solo) si chiama Fenix. In realtà nome e metafora per evocare il passaggio da uno stato all’altro, espresso in una ritualità che va dalla nascita alla morte, fortemente fisica e ripetitiva nella coreografia di Foofwa d’Immobilité con sali e scendi di corpi, che cadono a terra e con miracolosa agilità risalgono e quasi si sdoppiano, corrono, saltano come se dovessero schizzare fuori dal mare, e poetica ma anche molto densa in Arienti, nella cui opera il passaggio matura in viaggio e il luogo si fa rappresentazione del mondo.

 
Fenix è il sesto appuntamento di “Arte Contemporanea a Teatro”, progetto curato da Francesca Pasini e realizzato in collaborazione con la Fondazione Bevilacqua La Masa. Quest’anno il Sovrintendente Cristiano Chiarot ha deciso di rilanciare la vocazione della Fenice, nato come teatro aperto alla sperimentazione, con il festival “Lo spirito della musica di Venezia”, chiamando a lavorare insieme un coreografo e un artista visivo. Così questa volta il rapporto è stato più stretto. Iniziato ad aprile, quando i due hanno cominciato ad annusarsi e studiarsi attraverso i video che Foofwa mandava ad Arienti, proseguito attraverso vari momenti, come i disegni che l’artista ha fatto delle stoffe dei costumi indossati dai danzatori, che poi Foofwa d’Immobilité cambiava quasi ogni giorno, «si annoia a fare le stesse cose, anche se funzionano, le deve sostituire», racconta Angela Vettese, presidente della Fondazione Bevilacqua La Masa. Ma soprattutto Arienti ha saturato il fondale del palco con le videoproiezioni delle sue pitture. E qui forse l’artista visivo ha avuto la meglio sulla “decomposizione” del coreografo, che ha trasformato il palco in un cerchio, una superficie volutamente piatta bordata da luci che i corpi dei danzatori, che pure la solcano e puntellano come virtuosi compassi, non ricompongono, creando a volte un effetto eccessivamente straniante. «Ho spinto molto nella digitalizzazione. Ho sostituito i bianchi con i neri, il risultato è molto più forte», racconta Arienti. Contento? «Soddisfattissimo».

Il sodalizio ha rispettato anche quello che fino ad oggi è stato il cuore di “Arte Contemporanea a Teatro”: la realizzazione di un video proiettato sullo schermo frangifuoco della Fenice, installato con la riapertura del 2004. E anche qui emergono le differenze della strana coppia. Arienti ha montato un lungo slide show fatto con le copertine di cd musicali collezionati da lui e provenienti da tutto il mondo. Immagini fisse, circoscritte, che paradossalmente introducono all’irrequietezza decomposta di Foofwa d’Immobilité. «Il fatto che in quel momento si ascoltino gli orchestrali che provano gli strumenti fa capire che la proiezione non è un “in più”, ma un “insieme”», sottolinea Francesca Pasini.

Fin qui il lavoro a quattro mani. Poi c’è quello fatto solo da Arienti in mostra a Palezzetto Tito e di scena fino al 30 settembre. “Custodie vuote” prende il nome dal grande atlante squadernato dall’artista fatto con le custodie dei cd musicali, le stesse che ricorrono nel video proiettato sullo schermo frangifuoco della Fenice. Alcune svuotate dei cd e delle immagini, altre con le copertine ma senza i cd, memoria concreta della rapida obsolescenza della tecnologia che in soli trent’anni ha visto deperire i cd a favore delle tracce musicali scaricabili dal computer.

Ma il lavoro non parla solo di questo. Mette in atto quello che Angela Vettese definisce la ricerca di «nuovi territori da sondare, quasi da dissodare nel senso della conoscenza». Una ricerca per certi versi molto “materiale” e quasi domestica – in fondo la geografia fatta con i cd ha un tratto “globale” ma molto privato insieme – che attraversa tutto il lavoro di Arienti e che qui emerge nelle altre opere e stanze di Palazzetto Tito: i libri africani perforati seguendo il disegno delle immagini di copertina, le ciotole realizzate con gli studenti dello Iuav, le Copertine, 230 fogli dove l’argilla è stesa su fotocopie traforate, una pila di sedici libri di cui l’artista ha sostituito le copertine originali con altre che ripetono, quasi come un incitamento, Natura. Una stanza di pitture dalle tinte forti e dall’andamento circolare, lo stesso che  emerge in molte scene della danza alla Fenice, e che evoca ciclicità, l’eterno andirivieni del tempo e delle cose della vita. Ma soprattutto la stanza delle pitture rosse, dove grandi fogli colorati e sovrapposti si uniscono ai tappeti a terra che Arienti ha dipinto di rosso, creando un ambiente di sosta che abbaglia lo sguardo. Mentre, in un’altra stanza, Foofwa d’Immobilité propone il video ricavato dalle prove da lui girato e molto manipolato in post produzione. Ad un certo punto c’è una scena, secondo me illuminante, che racconta il suo metodo di lavoro: Foofwa inquadra i suoi piedi che camminano per il teatro e di lato e sopra si aprono finestre con immagini di scene già provate, schemi probabilmente già cambiati, coreografie che sono già ricordi. Lui si porta dietro questa memoria affastellata, in apparenza confusa, di una visionarietà a volte estrema nella quale, probabilmente, trova la soluzione del suo lavoro. Quasi con istinto animale.

Un omaggio alla conoscenza e al fare, attraverso ritualità e idee declinate in forme diverse. Che poi nel teatro si fa orgogliosa, sebbene decomposta, rappresentazione e nel palazzetto veneziano si accende di toni intimi ma asciutti. Questa spinta, attraversata da passione e ragione, è il momento di incontro forse più autentico tra i due artisti.

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