13 marzo 2018

L’aria di Taiwan

 
Parla Giacomo Zaganelli, giovane italiano, primo ad esporre al MOCA di Taipei. Ecco il resoconto di un’esperienza a contatto con una comunità locale, e uno sguardo sul turismo

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Per la prima volta un artista italiano è esposto al MOCA Museum of Contemporary Art di Taipei: parliamo del fiorentino Giacomo Zaganelli, classe 1983, che con il progetto Superficially si aggiudica questo primato, raggiunto dopo un biennio di attività piuttosto intense in cui Zaganelli ha ottenuto importanti commissioni sull’isola, tra cui l’installazione di un’opera permanente nella stessa città di Taipei. Lo abbiamo incontrato a qualche giorno dalla chiusura ufficiale della mostra per rivolgergli alcune domande sulla sua esperienza, sulle differenze e analogie tra il sistema dell’arte orientale e quello europeo. 
Come sei arrivato a Taiwan? 
«Nel 2015 ho vinto un concorso internazionale di installazioni ambientali per la città di Taipei. Era sempre stato un mio desiderio avere la possibilità di confrontarmi con territori e culture così lontane e soprattutto di farlo nella maniera più intima, entrando in contatto con comunità locali e potendone conoscere le sfumature dall’interno. Sono stato fortunato perché di 7 artisti, solo io e un’altra ragazza newyorkese abbiamo avuto la possibilità di lavorare e condividere le nostre giornate a stretto contatto con la comunità di Shezi Dao – un quartiere atipico di Taipei, una sorta di campagna con relativi ritmi e paesaggi nel centro di una metropoli ad altissima densità abitativa. La comunità ogni giorno partecipava nella realizzazione dei nostri interventi e ci ospitava nelle loro case per offrirci pranzi, momenti di rinfresco e mostrarci alcune attività tipiche e tradizionali». 
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Giacomo Zaganelli, Superficially, MOCA, Taipei
Approcciare l’altro attraverso il cibo e la sua ritualità. Un approccio che sembra simile alla nostra tradizione, o mi sbaglio? 
«In effetti, a Taiwan il cibo ha decisamente lo stesso valore che ha in Italia. Ogni giorno era un “pranzo di natale” e addirittura ogni oste chiamava quello del giorno precedente per sapere che cosa avevamo mangiato in modo da non riproporcelo. Di lì sono poi cominciati i rapporti con il territorio, che mi hanno portato a realizzare progetti anche in altre città come Tainan e Hualien. L’opportunità offertami dal MOCA ha rappresentato per me una grande occasione e il successo della mostra è andato aldilà delle aspettative, in tutto questo la vincita del Premio ONBOARD 2017 – promosso da MIBACT e Gai – ha giocato un ruolo di fondamentale importanza fornendomi la possibilità di stare a Taipei per almeno tre mesi dandomi l’opportunità di creare relazioni ancora più solide, di promuovere il mio lavoro presso università, fondazioni e studi privati, e di approfondire il lavoro di svariati artisti e curatori locali». 
Superficially è una critica al viaggiare senza capire, senza prendersi il tempo giusto per poter conoscere il luogo che si sta attraversando. 
«La mia domanda è esattamente questa. Qual è il senso di viaggiare se poi quando lo si fa non si è
minimamente consapevoli di ciò che si sta facendo? Non avrebbe forse più senso risparmiare quei soldi e guardarsi i luoghi su Google? D’altronde che si vadano a visitarli o che li si guardino su internet una grande differenza non c’è se poi quando si è lì, si è altrove». 
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Giacomo Zaganelli, Facades, MOCA, Taipei
Nei lavori che presenti in mostra crei una relazione per immagini tra Firenze e Tapei, confrontando Oriente e Occidente su un tema così caldo come il turismo di massa. Per un fiorentino, abituato da sempre all’assedio turistico, che senso ha oggi questo fenomeno?
«Citando Marco d’Eramo “come luogo di residenza e di vita, la città turistica diventa invivibile per l’autoctono che sempre meno può permettersela in termini economici e sempre più ne è espulso in termini relazionali. Il turismo uccide la città in modo più sottile, svuotandola di vita, privandola dell’interiore, proprio come nella mummificazione, facendola diventare un immenso parco a tema, un’immensa Disneyland storica, in una sorta di tassidermia urbana”. Le città turistiche italiane sono letteralmente invase da un flusso continuo di “zombie”, gruppi di persone che si muovono all’unisono incuranti di ciò che gli accade intorno e incapaci di osservare, interessati soltanto ad auto-rappresentarsi per condividere il proprio ego sui social network e/o a “timbrare il cartellino” nei pressi dei luoghi di maggiore interesse. Ma per quale ragione questi siano luoghi di interesse loro non ne hanno la più pallida idea e tantomeno sono interessanti a scoprirlo».
Pensi quindi che dovremmo ritrovare un approccio al viaggio come Grand Tour?
«Credo che il turismo di massa, quello dei gruppi e dei viaggi brevi organizzati – c’è anche l’Europa in una settimana mi hanno detto alcuni amici coreani – non contribuisca in alcun modo allo scambio e all’arricchimento culturale di una città, ma invece ne provoca soltanto un inasprimento del degrado culturale e sociale del luogo. Guardando al passato, come mi suggerisci, è interessante leggere come già nella seconda metà dell’ottocento un console britannico di stanza in Italia manifestasse di aver scoperto un “nuovo male”, riferendosi all’osservazione di gruppi di quaranta/cinquanta persone che invadevano le nostre città muovendosi in modo gregario e rimanendo unite dietro alla propria guida, come un gregge dietro al proprio cane pastore. L’era di Thomas Cook era appena iniziata, ma quasi nessuno a distanza di più di un secolo e mezzo sembra aver voluto ascoltare le osservazioni del console. Anzi». 
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Giacomo Zaganelli, Illusion, MOCA, Taipei
Un malessere tutto italiano quindi? 
«Le amministrazioni pubbliche delle città turistiche nostrane – diversamente da quello che è accaduto a Berlino e Parigi per intendersi – non hanno la sensibilità e la volontà di regolamentare questo fenomeno perché ne sono schiave, traggono linfa da tutto questo, e che linfa! Piuttosto si potrebbe dire che, anziché tutelare e garantire ai propri cittadini e visitatori la qualità della vita e dei servizi il più alto immaginabile, fanno di tutto pur di allestire le “proprie” città nella maniera più teatrale possibile. La città deve essere messa in scena e la sua presentazione deve essere quanto più fedele all’idea che il turista ne ha grazie all’offerta promossa dalle agenzie di viaggio, reali e virtuali che siano». 
Almeno, consoliamoci, i Musei possono esultare di questi numeri, leggendo i dati da poco pubblicati sui visitatori del 2017, non credi?
«Certo grandi numeri, grandi articoli su tutti i giornali e grandi strette di mano ma pessimi visitatori. Nessuno osserva. Si scattano solo foto e selfie. L’importante è solo incassare. I miei lavori nella mostra di Taipei affrontano questo tema, la completa disconnessione dell’individuo medio, fisicamente presente ma cerebralmente assente».
E in chiusura, tornando a questa tua esperienza, che idea ti sei fatto del sistema dell’arte a Taipei?
«Da un punto di vista artistico, Taiwan ha ancora molta strada da fare – d’altronde è un paese giovane con poca identità, visto il suo passato di colonizzazioni e un futuro alquanto incerto data la sua delicata posizione a livello geo politico – ma c’è da dire che la sta facendo e la sta facendo molto in fretta. Qui le cose accadono, non rimangono sulla carta e io in qualche maniera ne rappresento una testimonianza. Il paese è molto aperto alle contaminazioni artistico-culturali e investe molto sui propri artisti attraverso fondi e grants, così come su quelli esteri che ci vogliono lavorare, sovvenzionandoli nella maggior parte dei casi in maniera più che adeguata». 
Leonardo Regano

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