16 novembre 2010

fotografia_interviste Mestiere: fotografare il paesaggio

 
In occasione della mostra che il Palazzo delle Stelline di Milano dedica a Istanbul 05 010, abbiamo incontrato Gabriele Basilico. Per capire cosa significa, oggi, fare di mestiere il “fotografo di paesaggio”...

di

Perché il fotografo di paesaggio è interessato alla città oggi?

Sin dai miei lavori sulle
fabbriche di Milano degli anni ’80, il principio ispiratore della mia ricerca è
sempre stato che la forma dello spazio urbano possa rappresentare la forma del
vivere. Dunque sono interessato da sempre a osservare quelle parti della città
che si stanno modificando, come se
queste fossero le membra del un corpo di un bambino che cresce: è questo un
tentativo di leggere nel presente i segni del futuro.

Parliamo del tuo metodo di lavoro sulla città. Quanto c’è di ingenuità
e di progettualità nel tuo modo di rapportarti con la città?

Secondo me il fotografo non può
mai dimenticare la dimensione del flâneur che vaga
nelle città catturando immagini, armato del bagaglio della sua curiosità.
Personalmente non faccio mai uso esclusivo di quell’atteggiamento: al contrario,
mi costringo nei vincoli della progettualità. L’approccio del flâneur resta vivo in me come mero
istinto. Secondo me la fotografia di paesaggio implica la capacità di saper
combinare intelligentemente i due approcci, ossia quello del flaneur e quello del fine ricercatore:
spetta al fotografo sapere come dosarli.

Dunque, l’esplorazione fisica dello spazio è fondamentale per il tuo
lavoro…

La fotografia di paesaggio che
utilizza la macchina di grande formato e che cerca di rapportarsi al mondo in
modo oggettivo si ottiene camminando e cercando di capire il luogo attraverso
una percezione fisica complessiva, che include lo sguardo, il corpo, i piedi, i
pensieri, le memorie. Dopo aver camminato a lungo riesci a capire quale è il
punto in cui puoi lanciare la tua immagine: soltanto allora puoi fissare il
cavalletto, e far partire il tuo sguardo. Non giri con la macchina sull’occhio,
come protesi che dall’occhio si muove sulla realtà continua; al contrario, ti
muovi interagendo con lo spazio. La sperimentazione fisica dello spazio fa la
differenza.

Com’è cambiato il tuo approccio alla città nel tempo, in sintonia con
il cambiare della città contemporanea?

Il lavoro degli ultimi anni mi
ha condotto ad una
riflessione obbligata: non è possibile camminare in strada alla Cartier-Bresson
e fotografare quello che incontri casualmente. È la complessità della città
contemporanea a costringerti a fare delle scelte. Non solo sei portato naturalmente
a indirizzare il tuo sguardo verso alcuni fenomeni che più ti interessano, ma sei
costretto a costruire una sovrastruttura ordinata di preparazione del lavoro
che sovrapponi alla maglia della città, consapevole della parzialità del tuo
punto di vista.

Come modifichi il tuo approccio alla città a seconda delle
caratteristiche del luogo?

Le metodologie d’intervento in
una città sono molto diverse, dipendono dalla dimensione e dalla natura del
luogo. Quando non dispongo di fenomeni particolari da osservare, scelgo di fare
un viaggio all’interno del tessuto della città.

Ad esempio?

Per un lavoro
realizzato su Napoli ho preso in considerazione i due estremi della città: ho
scelto di partire dalla Mostra d’Oltremare e ho costeggiato la città dal fronte
mare; poi, addentrandomi nel centro storico, sono arrivato fino al Centro
Direzionale. Ho congiunto A con B, percorrendo una traiettoria lineare. Quando,
invece, mi trovo di fronte a una realtà più complessa, pongo sulla griglia
della città una ragnatela di percorsi.

Come si confronta con i modelli tradizionali di rappresentazione della
città, ad esempio con il genere della veduta?

I fotografi di paesaggio hanno
sempre scattato delle vedute. Per me i due approcci visivi, quello di “uomo a
livello stradale” che stabilisce dei punti vista dall’interno del tessuto
urbano, e lo sguardo contemplativo di veduta dall’alto ad un certo momento del
percorso di conoscenza di una città si sommano. Le due dimensioni sono
diventate per me necessarie e complementari.

Com’è cambiato il tuo lavoro di fotografo con l’introduzione della
fotografia digitale?

Nel mio lavoro non utilizzo
fotocamere digitali. Questo non perché sia contrario all’uso, ma semplicemente
perché conosco molto bene la tecnica che uso da trent’anni, ossia quella basata
sull’utilizzo della pellicola. L’impiego delle tecniche di lavorazione digitale
interviene nella fase di stampa, ossia quando ho in mano il negativo. Grazie a
queste tecniche, gli interventi di controllo del colore, che prima si facevano
in sede di camera oscura, si possono fare con maggiori garanzie di precisione e
successo. È evidente che per altri l’introduzione delle tecniche digitali
schiude le porte a un mondo totalmente nuovo.

Non ti senti un po’ fuori dal tempo?

Attenzione: il mio modo di
guardare il mondo è limitato. Spesso perdi delle cose, però ne guadagni delle
altre. Del resto, non si può avere tutto…

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La
recensione della mostra milanese

Basilico
e Piranesi

Basilico
e Milano

a cura di glenda cinquegrana


dal 15 settembre al 12 dicembre 2010

Gabriele Basilico – Istanbul 05.010

Fondazione Stelline

Corso Magenta, 61 (zona Magenta-Cadorna) – 20123 Milano

Orario: da martedì a domenica ore 10-20

Ingresso: intero € 4; ridotto € 3

Catalogo Corraini

Info: tel. +39 0245462111; fondazione@stelline.it;
www.stelline.it

[exibart]

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