17 dicembre 2002

Fotografia come ready made

 
Continua con questo servizio l’approfondimento sulla fotografia del secondo Novecento. Dai precursori come Sander ed Evans a Diane Arbus fino ad arrivare a De Dominicis ed Ugo Mulas. Di cui parleremo prossimamente…

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La propensione della fotografia di questo periodo, di proporre all’attenzione estetica quanto viene esperito quotidianamente, raffredda l’impatto visivo dell’immagine; la modalità d’intervento, come abbiamo visto, si emàncipa dal trattamento enfatico del reale e si limita alla sua scelta. Quanto selezionato dal continuum reale viene ora presentato oggettivamente senza fronzoli, amplificato e celebrato per il solo fatto di essere scelto tra la vastità del reale.
Gli iniziatori di tale modalità furono August Sander (1876-1964) in Europa e Walker Evans (1903-1975) negli Stati Uniti. In passato altri pionieri della fotografia come gli ottocenteschi Felix Bonfilis o Timothy H. O’Sullivan operarono in una manieradiane arbus documentaria essenziale ed attenta all’oggettività referenziale. Questi però rimasero legati ad un’idea di ampia veduta, simile a quella rinascimentale, in cui il tutto prevale sul dettaglio come in una “finestra aperta sul mondo”. In Sander ed Evans la contestualizzazione viene invece notevolmente ridimensionata e l’attenzione posta su pochi e decisivi dettagli; in quest’ultimi sono semmai ravvisabili stilemi in parte riscontrabili in Brassai e soprattutto in Atget. Animati comunque da intenti documentaristici, Sander ed Evans mantennero una certa attenzione all’ambientazione, alla contestualizzazione dei soggetti-oggetti da loro fotografati, stravolgendo però la modalità di ripresa che ai loro tempi si voleva enfatica ed elaborata, sostituendola con un modo di operare “elementare” e rigoroso. Le stesse modalità furono poi riprese in Germania da connazionali di Sander come Bernd e Hilla Becher, che spostarono la loro attenzione dal ritratto all’architettura, e negli States da Diane Arbus. La Arbus (1923-1971), che iniziò la sua carriera come fotografa di moda, dalla fine degli anni Cinquanta si dedicò al ritratto, privilegiando personaggi “diversi”, emarginati, presentati oggettivamente. Brutalmente decontestualizzati i soggetti, ripresi frontalmente in una innaturaleWalker Evans naturalezza, emergono così in tutto il loro inquietante iperrealismo. Nel far questo la Arbus interveniva nella realtà fotografata, sia per evitare una ripresa voujeristica, colta naturalmente, sia impedendo che i soggetti posassero attribuendosi “maschere” lontane dalla loro essenza reale. Inoltre, utilizzando un leggero grandangolo, l’artista si fa ancora più vicina alla vita dei soggetti che fotografa, in una parola si fa invadente, l’esatto opposto di quanto andava facendo Cartier-Bresson. Questo tipo di partecipazione all’evento da riprendere avvicina per certi versi Diane Arbus alle pratiche informali che prediligevano il gesto calato nel reale, ma forse ciò che più interessava la fotografa era la possibilità, attraverso il mezzo fotografico, di proporre all’attenzione estetica tipologie umane, ready mades viventi, e probabilmente più d’un sottile filo di riconduzione lega l’opera della Arbus all’operazione di Gino De Dominicis che nel 1972 esporrà un mongoloide in carne ed ossa alla Biennale di Venezia.
In Italia intanto un fotoreporter altrettanto lontano da H. C. B. quanto la Arbus, inizia nel 1971 una serie di verifiche che aprono definitivamente anche nel nostro paese la strada alla fotografia concettuale. Ugo Mulas (1928-1973), è a lui che ci stiamo naturalmente riferendo e di cui tratteremo nel prossimo approfondimento.

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8 Commenti

  1. la Arbus ha fatto delle fotografie stupende. Non credo sia nemmeno avvicinabile al lavoro di Sander, che in germania ha optato per una presentazione egualitaria dell’uomo anche se lo ritraeva nel proprio contesto sociale: campi per gli agricoltori, tra i forati per i muratori, in pose plastiche per i vip, in atteggiamenti di potere per i politici ecc… Tutto questo però non ha sottolineato le differenze, ma perpetuato una sorta di uguaglianza: ogni uomo è di pari dignità, a prescindere dal livello sociale. Per questo venne perseguitato dai nazisti! La arbus invece porta avanti un discorso completamente differente: le differenze esistono, e non le dobbiamo temere, ma accettare come forma di arrichimento. Sander non parlava molto con i soggetti, la arbus passava del tempo a capire come erano, e poi si permetteva il lusso di fotografarli come voleva lei! Gli emarginati della Arbus (morta suicida, ricordiamolo) erano un chiaro esempio di come in fondo i veri “diversi” siamo noi, o cmq tutti coloro che credono in una normalità che non esiste. Mi viene alla memoria il film, del 34 o 35 forse, Freaks. Opera censurata sino agli anni ’60 che metteva in gioco la vita di alcuni menomati che lavoravano in un circo. la morale del film è simile a quella proposta dalla arbus: i veri mostri sono altri.

  2. A prescindere da differenze o uguaglianze riscontrabili nel campionario di varia umanità che ci circonda e che ognuno è libero di interpretare come crede, il nocciolo dell’articolo tratta della rivoluzione formale, dello stravolgimento della modalità d’intervento sul reale e conseguente fruizione da parte dello spettatore che passa dalla contemplazione di linee e tonalità, che legittimano un documento, ad una documentazione rilevante per se stessa.
    E’ ovvio poi che ogni artista utilizzi questo tipo di ripresa in funzione dei propri intenti privilegiando però la presentazione di un (s)oggetto e non la sua rappresentazione (pensa solo alla differenza formale, che diventa sostanza, tra il lavoro di Evans e quelo di Dorothea Lange, entrambi connazionali coevi e membri della Farm Security Administration). Non è un caso allora forse che sia operazioni come freeks (che tu dici sulla linea Arbus) che il lavoro di Sander siano incappati nella censura.

  3. Prendo nota della precisazione circa l’analisi formale degli artisti presi in considerazione, e non voglio certo oiettare su questo. Mi premeva però segnalare delle diversità “sociali” di approccio, tutto qui. Dato che questo splendido “mini saggio” sulla fotografia e la sua storia vuole delineare le principali evoluzioni avute sia del mezzo, che dell’opera scaturita da esso, trovavo riduttivo (ovvio che una rubrica non è un liro) limtarsi all’aspetto portato in luce nell’articolo. La fotografia in quegli anni prende una piega tecnica ben precisa, però nn dimentichiamoci che fa propria anche un’altra caratteristica redicale: la politica. Evans traccia i sentieri di una sesibilizzazione verso i non agi di una società, Sander professa velatamente la non distinzione, e la Arbus fa quello di cui ho accennato nel precedente commento. Non era mia intenzione criticare l’articolo, ma permetterai che vedersi accomunare (prendilo con le molle) Sander e la Arbus anche solo per la scelta formale, equivarrebbe a unire che ne so…Weegee e Bellmer perkè entrambi usano la macchina fotografica. Sarebbe un errore no?
    con affetto
    K

  4. Caro Kranix, condivido in parte le tue osservazioni e mi fa piacere ampliare attraverso questo dibattito virtuale ciò che non è facile precisare nelle tremila battute di un articolo. Per quanto riguarda la vicinanza tra Sander ed Arbus ho già detto, alcune potenziali differenze le hai sottolineate tu, erano però implicite (forse in maniera non troppo evidente) nell’articolo, visto che relegavo Sander tra i precursori di pratiche che si sono evolute nella seconda metà del Novecento (vedi “E Fotografia fu!”). Inoltre parlo di una linea che va da Sander a Bernd & Hilla Becher (fino ai vari Ruff, Tillmans, Struth e anche Gursky) e di un’altra che parte da Evans e arriva fino alla Arbus (ma anche Larry Clark e Nan Goldin) per cui l’incontro Sander-Arbus è solo sfiorato, indicativo però di un fare fotografia che si discosta definitivamente dal Pittorialismo per avvicinarsi a pratiche quali il ready made, in cui il reale viene usato (per scopi vari) e non trasformato. A proposito della sovrapponibilità tra fotografia e ready made, segnalo i saggi di C. Marra, F. Vaccari, R. Krauss e U. Mulas

  5. Grazie per le precisazioni, mi è piaciuto discuterne. A volte nei commenti alla notizia l’autore di un articolo latita troppo, constato con piacere che non è il tuo caso. Mi sapresti indicare il titolo o i titoli dei saggi cui ti riferisci? Marra lo conosco benino (era mio prof), e anche le arzigogolate inflessione di Rosalind krauss mi entusiasmano non poco. Se puoi farmi sto favore…grazie e ciao.
    K

  6. Ugo Mulas, “La fotografia”, Einaudi, Torino, 1973 (soprattutto alle pp. 146, 147 e 172); Franco Vaccari, “Fotografia e inconscio tecnologico”, Punto e virgola, Modena, 1979 (nel capitolo “Fotografia e ready-made”); Francesca Alinovi-Claudio Marra, “La fotografia. Illusione o rivelazione?”, Il Mulino, Bologna, 1981 (nella parte scritta da Marra); Rosalind Krauss, “Teoria e storia della fotografia”, [1990], trad. it., Bruno Mondadori, Milano, 1996 (nel capitolo “Marcel Duchamp o il campo immaginario”); Claudio Marra, “Fotografia e pittura nel Novecento”, Bruno Mondadori, Milano 1999. Se studi a Bologna, come mi sembra d’aver capito, puoi trovarli nella biblioteca del dipartimento di Arti Visive, al numero 33 di via Zamboni, in determinati orari puoi anche fotocopiarli.

  7. Un ulteriore punto di vista sul tema fotografia e ready made è rintracciabile
    nell’appendice di “fotografia arte pensiero”, scritto da Augusto Pieroni ed edito da Lithos nel 2002.

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