13 maggio 2008

NON SOLO AIUOLE

 
Una Vista privata nel Lower East Side, nell’ambito del Premio New York 2007. Un progetto d’arte pubblica a Torino. E unica presenza italiana in Greenwashing alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Ettore Favini: l’arte e la cura del verde. Partendo dal quartiere torinese di Falchera...

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Verdecuratoda è la nuova opera d’arte che Torino accoglie nello spazio pubblico. Come hai sviluppato l’idea di lavorare sul verde e la sua cura?
In Verdecuratoda il titolo è tautologico rispetto alla cura. “Prendersi cura di qualcosa” -come un giardino di essenze rare e autoctone- rappresenta il primo gesto d’amore verso l’altro, verso le attenzioni che dedichiamo al di fuori di noi. Verdecuratoda, con la collaborazione tecnica dell’architetto Paolo Pugnoli, è un progetto pensato per rotatorie, giardini rionali e inutilizzati, spazi per i quali la riqualificazione consiste nella semplice piantumazione di essenze arboree secondo principi d’indipendenza e autosostenibilità. Il progetto ha vinto la II edizione del “Premio Artegiovane. Milano e Torino incontrano… L’Arte” e, inizialmente, doveva realizzarsi nel quartiere di Falchera Vecchia, all’interno di una rotonda viaria.

Dove si può vedere, allora, Verdecuratoda?
Per una migliore fattibilità, l’opera ha preso forma negli spazi della Cascina Falchera, oggi un Centro per l’Educazione all’Agricoltura della Città; un’area che, sin dalla fine dell’Ottocento, ha sempre avuto una vocazione agricola: prima come terreno coltivato a orti e frutteti, successivamente, con la trasformazione in quartiere operaio negli anni ’50, come campi autogestiti dove si coltivavano ortaggi e frutti nostalgici dei tanti immigrati giunti a Torino dal Meridione. Parlando di agricoltura, ho pensato di proseguire il progetto in questa direzione, collegando cioè il passato dell’area all’agricoltura consapevole, all’attuale dibattito sull’agricoltura tecnologicamente avanzata. Oggi, Verdecuratoda si configura nell’area della Cascina Falchera come una sorta di ecosistema vivente, un luogo in cui hanno trovato dimora diciotto differenti essenze arboree autoctone del Piemonte.
Ettore Favini - Verdecuratoda - 2008
Credi che, nel recupero della memoria collettiva di un luogo come Falchera, il tuo progetto possa evolvere a un livello più spirituale? Cioè diventi una costante azione rituale per chi si prenderà cura dell’opera o chi ne farà semplicemente esperienza?

Parlando ancora di cura, è l’area stessa che si prenderà cura di sé. Verdecuratoda, dalla suggestione delle targhe all’interno delle aree verdi delle città, è un gioco di parole perché è il “verde che si cura da solo”. L’opera è infatti un’isola, un ecosistema autonomo in cui l’uomo entrerà per raccoglierne i frutti. Rispetto alla ritualità, invece, mi auguro che Verdecuratoda sviluppi una nuova attitudine allo sguardo verso il paesaggio, uno sguardo, cioè, che sappia osservare, riconoscere e apprezzare la presenza del naturale (con i suoi processi di crescita), separandola da un modello culturale e da precise categorie d’interpretazione estetica del paesaggio.

Rispetto al progetto Private View, che hai realizzato a New York nel Community Garden del Lower East Side, cosa c’è in comune con Verdecuratoda?
In comune vi è sempre l’attenzione per il verde. Nel caso di Private View si trattava però di una situazione diversa. A New York ci sono molti giardini spontanei che vengono curati e gestiti dagli stessi cittadini: si chiamano, infatti, Community Garden. Sono spazi verdi fortemente protetti dalla cittadinanza perché costantemente minacciati dalle Real Estate, le corporazioni immobiliari che fanno pressioni per acquisirli e costruirvi nuovi palazzi. In Private View m’interessava lasciare l’emozione del momento, il personale sguardo di un’immagine in divenire, per evidenziare quanto intorno a noi svanisca e si modifichi continuamente a causa della fragilità e dell’instabilità del presente. Nel Communty Garden ho inserito due panchine che funzionano un po’ come macchine fotografiche e le persone che vi prendono posto diventano una sorta di obiettivo che fissa e registra il momento che stanno vivendo. Un pezzo di memoria del giardino, di un verde che potrebbe non esserci più.
Ettore Favini - Private View - 2007 - veduta della mostra alla Columbia Academy, New York
E come sei arrivato a elaborare Green is the color of money, l’opera esposta nella mostra Greenwashing alla Fondazione Sandretto?

Rispondere allo stato attuale del pianeta è una responsabilità che ci tocca quotidianamente. Dovremmo adeguare i nostri comportamenti in una direzione diversa, di decrescita dei consumi e degli sprechi. Da sempre cerco di stare attento quando faccio acquisti, scegliendo prodotti “bio” o “organici”, evitando il più possibile prodotti di multinazionali, ma molte volte mi accorgo che è una lotta impari. Ho cominciato così a leggere le etichette, controllare le pubblicità sui giornali, nei banner stradali, nelle brochure delle aziende e sul web, collezionando una serie di messaggi. Green is the color of money deriva direttamente da questo, è semplicemente una constatazione dello stato delle cose: le multinazionali ci convincono ad acquistare (attraverso il greenwashing) prodotti “verdi” che, durante i processi produttivi, aggravano però lo stato del pianeta. Semplicemente per uno scopo: il denaro. Il mio è un modo di vedere le cose, non penso di essere un artista ecologico e non mi piace essere riconosciuto come tale, piuttosto come una persona responsabile.

Tra i testi che maggiormente hanno influenzato la tua ricerca vi è Il Terzo Paesaggio di Gilles Clément, l’ingegnere agronomo che ha ispirato con le proprie teorie e con le proprie realizzazioni un’intera generazione di paesaggisti europei. Qual è l’aspetto delle ricerche di Clément che maggiormente ti ha colpito e che senti presente nel tuo lavoro?
Di Clément sento molto vicina la passione per la natura e l’idea che la Terra sia intesa come un enorme giardino sul quale noi tutti passeggiamo. Nel Terzo Paesaggio, in particolare, è l’idea di scarto umano a interessarmi; il fatto, cioè, che gli spazi residuali non considerati dall’uomo in quanto paesaggio, a causa di modelli storico-culturali precostituiti, siano invece natura a tutti gli effetti, perché luoghi in cui la natura stessa agisce, interagisce e reagisce. Un altro pensiero, però, è presente nella genesi di Verdecuratoda ed è la memoria del lavoro di Joseph Beuys che, con 7000 querce, mette a punto un’operazione di forestazione collettiva sull’idea che sottende Verdecuratoda. A partire dall’esposizione di Kassel del 1977, infatti, Beuys dà vita a un progetto relazionale di scambio fondato sul fatto che, acquistando simbolicamente un monolite di pietra, il collezionista s’impegnava a piantare una quercia, e l’artista tedesco calcolò che ci sarebbero voluti circa trecento anni prima che le piante diventassero il bosco da lui immaginato. Un bosco in grado di trasformare un’azione ordinaria, come quella di piantare alberi, in un grande rito collettivo, capace di evocare i significati più profondi del rapporto fra uomo e natura, ripensando al ruolo sociale dell’artista.
Ettore Favini - Verdecuratoda - 2008 - pannello descrittivo
Questa “comunione di intenti” con Beuys come si è sviluppata?

L’ottica era simile nel 2006, quando, in occasione di una mia mostra a Roma, donavo ai visitatori una bustina di semi invitando a una sorta di forestazione urbana: era un primo tentativo relazionale basato sulla cura, l’attenzione, l’interazione e la mappatura dei fenomeni della natura. Adesso, Verdecuratoda prosegue l’esperimento, proponendosi come concreta esperienza di un ecosistema autonomo all’interno di quella che immagino come una rete di ecosistemi (www.verdecuratoda.it), il pezzo di una grande scultura vivente costituita anche da altre esperienze sul territorio nazionale. Partendo da Falchera.

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