10 marzo 2014

Dare forma al tempo

 
Cento disegni di Luciano Fabro abitano il CIAC di Foligno. Si tratta di lavori progettuali, intesi come pratica alla base del processo creativo, messaggi personali donati ad amici o parenti come segno di relazione tra arte e vita che smaterializzano la scultura. Svelando 40 anni di attività di un protagonista dell’Arte Povera che ha concepito l’esistenza come una pratica per dare forma al tempo

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Luciano Fabro Macchie di Rorschach, 1976 Cm 56 x 76 Acrilico su carta a mano, carta e inchiostro, assemblaggio Collezione privata Foto: Annalisa Guidetti e Giovanni Ricci, Milano

Luciano Fabro (1936-2007), artista torinese, che ha le stesse iniziali di Lucio Fontana, che frequentò dal 1959 quando si trasferì con la madre dal Friuli a Milano. Tra i due artisti l’elemento comune è lo spazio e una ricerca di smaterializzazione dell’oggetto, che per Fontana si concretizza idealmente nei Concetti spaziali, nei buchi e nell’emblematico taglio, mentre per Fabro il principio dell’opera s’iscrive nel disegno: un termine che spazia dalla parola all’immagine, al pensiero e diventa l’iconografia, la traccia del suo operare, inteso come base di un processo creativo che conduce alla genesi di un’idea. 
“Luciano Fabro Disegno In–Opera” è il titolo della mostra a cura di Giacinto Di Pietrantonio, Italo Tomassoni e Bruno Corà  in collaborazione con Silvia Fabro e l’omonimo Archivio, realizzata in collaborazione con GAMeC- Galleria d’Arte Moderna di Bergamo, dove un centinaio di disegni sono stati esposti da ottobre al 6 gennaio, ora ospitati a Foligno, al CIAC-Centro Italiano Arte Contemporanea (aperto il venerdì pomeriggio e il sabato e la domenica), animati di nuova energia, evidenziando indescrivibili spazialità da sperimentare fisicamente più che da raccontare. 
Luciano Fabro La molla della vita, 1992 Cm 49,5 x 69,5 Acrilico, matita colorata e grafite su carta Collezione privata Foto: Annalisa Guidetti e Giovanni Ricci, Milano
Il percorso espositivo dei disegni (dal 1962 al 2007), considerati “esercizi di peregrinazione”, omaggi destinati ad amici e persone care che svelano l’universo affettivo di Fabro, si snoda senza una meta precisa, inizia al piano terra e termina nel piano interrato con alcune grandi sculture. Il CIAC è sorto sulle rovine di un edificio che fu prima Centrale del Latte e poi Ufficio Postale. Questo parallelepipedo rivestito di corten, nato da un’idea di Getulio Alviani, a Luciano Fabro sarebbe piaciuto per il materiale “poverista” e il rigore formale che lo caratterizza. 
La mostra, che evidenzia un aspetto poco conosciuto del lavoro dell’artista, presenta un’indiscutibile qualità per quanto riguarda la scelta dei disegni, ma purtroppo non dialoga con il pubblico, sembra concepita solo per gli addetti ai lavori: da nessuna parte si leggono basilari note biografiche dell’artista, anche se il catalogo (Silvana Editoriale) include, tra altri contributi, arguti testi critici, quattro lezioni sul disegno che Fabro tenne durante gli anni di insegnamento all’Accademia di Brera (è stato professore della cattedra di Pittura, dal 1981 al 2002), non riportati in mostra. Ma neppure nel catalogo è stata contemplata una scheda biografica, ragionata o sintetica, utile per dimostrare l’attività pratica produttiva e l’impegno didattico dell’autore, per farlo conoscere ai giovani, ai molti folignati diffidenti nei confronti dell’arte contemporanea e a tutti quelli che non conoscono l’ex protagonista dell’Arte Povera che era considerato un maestro di vita dai suoi allievi dell’Accademia. L’intellettuale, attento alla comunicazione intesa come impegno etico e civile, si racconta nel suo libro Arte torna  Arte. Lezioni e conferenze 1981-1997 (1999), e continua a vivere grazie ai suoi illuminati scritti, alle opere e ad interrogarci sul sesto senso dell’arte: il pensiero. Qualche accenno biografico sull’attività dell’artista nell’ambito espositivo è necessario, al fine di comprendere il trait d’union tra le sue sculture e questi materiali “di–segno”, dal tratto in divenire, dinamico e spontaneo e più in generale il suo operare intorno alla genesi dell’arte, nello spazio, evidenziando diverse modalità operative. 
Luciano Fabro Fanciulla, non accettare i miei fiori, 1992 Cm 40 x 30 Acrilico e grafite su carta Collezione privata Foto: Annalisa Guidetti e Giovanni Ricci, Milano
Disegni come atto autonomo, vademecum progettuale del suo lavoro, linee, punti, curve, parentesi, buchi come omaggio a Fontana, Macchie di Rorschach (1976), nere, gialle, blu e rosa, o figure geometriche, realizzate con materiali diversi: matite nere e colorate, penne, pennarelli, inchiostro di macchina per scrivere, acrilici, cartoncini delle schede di catalogazione utilizzate in biblioteca, fogli millimetrati, dalla carta da Fabriano alla carta di paglia.
Queste e altre soluzioni aperte a peregrinazioni mentali intorno all’idea di mettere in relazione il gesto con il pensiero, il vuoto con il pieno, il testo scritto con l’immagine, con l’idea di rendere visibile l’essenziale. Nel 2001 Fabro elenca alcuni tipi di disegno che corrispondono ai verbi che danno vita a una nuova specie di soggetti autoreferenziali: indicativo, passato, futuro, congiuntivo e infinito. Nessun disegno deve necessariamente essere progettuale, perché l’atto stesso di disegnare, di per sé  materializza l’invisibile. Nell’intervista di Francesca Pasini rilasciata per “L’illustrazione Italiana” (n°26, gennaio 1986) Fabro dichiara: «Quando lavoro, faccio una serie di assaggi. Comincio a fare schizzi, giro, rigiro e a un certo punto nasce». E nella lezione dell’8 marzo del 2002 a Brera afferma: «Io sono uno che non disegna mai», aggiungendo «però, se a un certo punto ho bisogno di crearmi un’idea, di tirar fuori una mostra e tutto sommato di presentare un lavoro nuovo, allora mi metto a scribacchiare». Il suo campo d’indagine ruota intorno all’inconsistenza in cui lo spazio sembra definire un campo di forze, tensioni e in cui il movimento è continuo, dove l’occhio non riposa, come rivelano i suoi brulicanti segni, scritte simili a ideogrammi, ghirigori dall’accentuato senso del ritmo e una rapidità esecutiva che trascrivono l’istantaneità del pensiero, poi gesto germinante. Queste tracce elementari, e in alcuni casi segni più meditati che trasformano il vuoto in un pieno e viceversa, anche nei titoli semiseri come Studi per ottimismo (1998), nella serie di Nessuno goda né di testa né di coda (1998), o l’essenziale Goccia di tempo (2004), e ancora La battaglia tra logica e incoscienza (2005), o Quale equilibrio (2004), con oscillazioni di blu Yves Klein e infine tre emblematici tagli-ferite In Principio (2007), acrilici su cartoncino, diventano l’enigma del principio stesso dello spazio, del tempo e del mistero dell’universo. 
Luciano Fabro No titolo, 1962 Cm 12,4 x 12,4 Inchiostro di macchina per scrivere e grafite su marca da bollo e scheda in cartoncino, collage Collezione privata Foto: Annalisa Guidetti e Giovanni Ricci, Milano
Oltre ai disegni sono esposte alcune grandi opere, tra cui Struttura ortogonale (1964), costituita da una griglia tubolare in ottone tagliata al centro, che sembra sul punto di spezzarsi come una rete  tirata da entrambi i lati, 1962 Habitat, del 1981 e l’installazione dal titolo Zen Zoppo. I miei passi hanno bucato il cielo. I miei passi hanno bucato la terra. Io sono zoppo (1994), composta da uno striscione di 12 metri che riporta il titolo dell’opera in ideogrammi giapponesi che, secondo Fabro, rappresenta «un ritratto delle ambizioni dell’uomo contemporaneo e dei suoi risultati. In qualsiasi direzione abbia avanzato, ha fatto delle buche, ha “toppato”, il suo avanzare civile è molto zoppicante». Una sentenza lapidaria che trasuda di realismo e di profonda saggezza, come tutta la sua opera intorno ai modi di abitare lo spazio come architettura dell’esistenza.      

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