29 settembre 2014

Il Reportage

 
Il nodo Arte e Potere. Messo in scena al Castello di Dublino il 12 luglio scorso. Giorno in cui i Protestanti celebrano la loro supremazia nell’Irlanda del Nord

di Manuela Pacella

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L’alto significato simbolico del Castello di Dublino sta nel rappresentare la storia stessa della città come dell’intera Irlanda. Dal luogo in cui l’edificio sorge deriva il nome della capitale, Dubh Linn; è stato fortezza, prigione, palazzo di corte, residenza dei viceré d’Inghilterra e quindi, per oltre 700 anni, simbolo dell’occupazione britannica. Dal 1922, ossia dalla proclamazione dello Stato Libero d’Irlanda, è del governo irlandese e svolge una funzione cerimoniale. 
Il castello è, nella mappa turistica della città, uno dei luoghi da visitare per cui è percorso continuamente da fiumi di visitatori, quelli dallo sguardo veloce e dal collezionismo fotografico compulsivo. Cosa succede se, durante una visita standard nei suoi ambienti, si inciampa in atti performativi che sembrino violare la sacralità data ad alcuni oggetti esposti o che mettano in discussione la simbologia insita in un luogo di rappresentanza del potere come questo?
È esattamente ciò che è accaduto lo scorso 11 e 12 luglio grazie all’iniziativa These Immovable Walls curata da Michelle Browne con la collaborazione di Ciara MacKeon, durante la quale sette performance di altrettanti artisti irlandesi e internazionali hanno indagato l’idea del potere sotto diverse forme, mettendo in subbuglio l’ordinarietà delle consuete visite turistiche, creando cortocircuiti comportamentali non solo nei visitatori ma nello stesso staff del castello come probabilmente negli artisti, troppo spesso abituati ad intervenire nei luoghi deputati all’arte contemporanea.
Certamente questo è stato l’aspetto che più ha interessato Maurice O’Connell che durante i due giorni, con la sua Audi Vide Trace, ha attraversato tutti gli ambienti del castello, in parte come visitatore, in parte come membro dello staff – legittimato dal relativo badge – e ha dialogato in vario modo sia con il pubblico sia con gli interni del castello.
Sulle possibilità liberatorie insite nell’essere legittimati a fare qualcosa di inconsueto o proibito come nel poter esaudire un desiderio si basa l’intervento di Kateřina Šedá dal titolo First Class. Da un elenco di 15 possibilità si poteva scegliere se mettere il proprio ritratto nella Portrait Gallery oppure parcheggiare la bicicletta nel cortile, correre dentro tutto il castello o cantare negli State Apartments.
Dal sapore più teatrale, invece, sono Still Life di Carey Young e The Spy at the Gate di Pauline Cummins, entrambi interventi dai posti limitati. Still Life è una lettura di un testamento, interpretata da Mark Oosterveen e il cui destinatario è proprio il pubblico. Questi diviene depositario dei quattro oggetti più volte descritti nella loro forma e colore, per ribadire l’importanza dell’atto mnemonico, per custodire di quegli oggetti lo stesso valore e ricordo che ne aveva il proprietario.

 

I 22 visitatori della performance di Pauline Cummins sono i figli di Emily, la Duchessa di Leinster. Ciascuno ne porta il nome e lo spirito attraverso un palloncino bianco, mentre la Duchessa narra la sua storia e poi offre il tè nella Drawing Room. L’intervento trova il suo epilogo con una marcia fuori dal castello, sino alla St Werburgh’s Church dove è sepolto uno dei figli di Emily, Lord Edward FitzGerald che appare nella chiesa e racconta la sua rivoluzionaria vita e tragica morte.
Rivolti ad una storia politica più recente sono invece gli interventi di Philip Napier, Sandra Johnston e Dominic Thorpe. Il primo, con Soon – soprannome del portavoce di Margaret Thatcher durante i negoziati anglo-irlandesi –, ha realizzato l’opera più visibile, proprio perché interessato agli aspetti mediatici del potere. Nel cortile del Castello un pilastro di granito reca incisa la parola che dà il titolo all’opera e durante il primo giorno una Jaguar grigia veniva dipinta della stessa tonalità di giallo delle pareti della Queen’s Room, la stanza dove la Thatcher dormì (in uno dei suoi tre soggiorni al Castello); il secondo giorno, invece, la Jaguar veniva di tanto in tanto guidata in circolo, quel cerchio assurdo e senza fine della Iron Lady.
Entitlement di Sandra Johnston è un’opera in due atti. Il primo si è svolto il primo giorno presso lo State Corridor. Il corridoio, al buio, era percorso da cinque lunghi cavi che alimentavano cinque torce. L’artista lo percorreva lentamente, aiutandosi dapprima con la luce di una sola torcia e poi, progressivamente, aggiungendo, ad una ad una, le altre. All’aggiunta di ciascuna fonte di luce aumentava anche il peso e la fatica dovendo l’artista arrotolare i lunghi cavi sul proprio corpo (prima solo sul braccio, poi intorno al busto e al collo). Un lento, silenzioso e faticoso percorso nella storia, alla ricerca di tracce quasi invisibili accumulatesi nel tempo. Come sostiene la curatrice, questo lavoro richiama quello faticoso, al buio, dei minatori come le centinaia di monete da un centesimo usate il secondo giorno dalla Johnston nella Drawing Room simbolicamente si riferiscono alla massa, al popolo. L’artista dapprima cerca di contenerle tutte nel suo grembo ma poi cadono, seguendo i suoi movimenti, lentamente, e risplendono sul tappeto colorato e prezioso, dove Johnston, sdraiata, cerca letteralmente di trascinarle tutte con sé in una lotta impari tra la moltitudine e il singolo o in un immenso ed estremo gesto di compassione materna, all’opposto del significato che venne dato alla statua della Giustizia quando venne eretta nel cortile del castello. Infatti la statua ha la spada rivolta in alto (invece che in basso) e la schiena verso la città.
Dominic Thorpe sceglie per la sua Proximity Mouth l’edificio che affaccia sul cortile dal lato opposto all’entrata degli State Apartments, sede, dagli anni Quaranta agli anni Ottanta, del Tribunale dei Minori e da dove molti bambini sono stati giudicati e mandati nelle scuole industriali gestite dalla Chiesa Cattolica. Una storia recente, di cui ancora si parla poco e che l’artista sottopone all’attenzione con una performance molto forte in cui si viene accompagnati per mano nella sala principale del tribunale proprio da uno di coloro che lì vennero processati e ci si trova faccia a faccia con una realtà scomoda, noi stessi riflessi nello specchio che Thorpe fa roteare e dove la sua bocca aperta rimane muta, sbattendo sullo specchio. Andando via ci si porta dietro un foglio meticolosamente piegato da un’adolescente, a forma di barca o aereo (a scelta di come lo spettatore si sente), su cui è stampato l’elenco dei centri di accoglienza irlandesi per i richiedenti asilo.
L’inserimento sottile negli interstizi comportamentali, la denuncia della storia, il peso di far luce sulla memoria, la spettacolarità mediatica della politica si sono sovrapposti alla routine quotidiana del castello in date di un certo rilievo per la storia dell’Irlanda, in modo particolare di quella del Nord. È stato un caso eppure non si può non tenerne conto: il 12 luglio, The Twelth, i Protestanti celebrano la loro supremazia nell’Irlanda del Nord con varie parate organizzate dall’ordine Orange e precedute, la notte dell’11 luglio, dall’accensione dei falò costruiti nei mesi precedenti e dal sapore violentemente anticattolico.
Il cortile del Castello, il giorno dopo These Immovable Walls dove la Jaguar gialla di Philip Napier circolava a vuoto, era letteralmente ricoperto di macchine diplomatiche per il pranzo cerimoniale del 13 luglio, giornata nazionale di commemorazione dei caduti irlandesi. 
Di colpo uno straniero in terra irlandese capisce l’importanza strategica di questo luogo e sa ancor più apprezzare il coraggio di un’iniziativa come questa dove davvero l’arte contemporanea è riuscita a far luce sui molti aspetti del potere. 

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