17 dicembre 2015

Guido che misura il mondo

 
Con una mostra che testimonia un’impresa al limite, van der Werve torna a Roma. Confermando la sua idea di produzione dell’opera tra rituale e creazione artistica comprensibile a tutti

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Basta che un rumore, un odore, già uditi o respirati un tempo, lo siano di nuovo, nel passato e insieme nel presente, reali senza essere attuali, ideali senza essere astratti, perché subito l’essenza permanente, e solitamente nascosta, delle cose sia liberata, e il nostro vero io che, talvolta da molto tempo, sembrava morto, anche se non lo era ancora del tutto, si svegli, si animi ricevendo il celeste nutrimento che gli è così recato. Un istante affrancato dall’ordine del tempo ha ricreato in noi, perché lo si avverta, l’uomo affrancato dall’ordine del tempo 
(Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto)
A due anni di distanza dalla sua ultima impresa Nummer veertien: Home, presentata nel 2013 negli spazi della Fondazione Giuliani a Roma, Guido van der Werve accoglie nuovamente il proprio pubblico alla galleria Monitor, sei anni dopo Minor Pieces, eccezionalmente aperta per dieci ore consecutive in occasione del giorno del vernissage, parallelamente alla durata del video a doppio canale realizzato per il diciassettesimo capitolo della sua opera raccontata in episodi (Nummer zeventien killing time attempt one: from the deepest ocean to the highest mountain, fino al 23 gennaio).
Nummer vier, I don't want to get involved in this I don't want to be a part of this. Talk me out of it 2005 35mm 11'47
Sono passati due anni e quello che non è cambiato è la matrice del lavoro dell’artista, ovvero la sintesi in immagini di un particolare mood, la cristallizzazione di uno state of mind che si traduce in performance. Il processo di produzione dell’opera, divenuto ormai un rituale, è la trasformazione di un’emozione in una creazione artistica che possa essere – quanto più possibile – comprensibile agli occhi di tutti. Legato allo studio del pianoforte sin da piccolo, van der Werve prova la strada del Conservatorio, per poi scoprirsi più vicino allo studio dell’arte, che gli permette l’incontro con il mondo performativo. La musica – che egli stesso scrive ed esegue – resta, ugualmente, un elemento costitutivo nella sua produzione, come fosse l’unico altro possibile protagonista nei video che registrano le sue performance. Guardare i video di Guido van der Werve è come assistere alla sceneggiatura di attimi densi, cui protagonisti possono essere persone qualsiasi (Nummer twee, 2003), ma che fondamentalmente lo vedono protagonista in dialogo con un background naturalistico d’effetto, come nei ritratti sublimi descritti dai Romantici, quelli di un uomo solo davanti alla schiacciante grandezza dell’universo con la musica come ulteriore forma di astrazione dal reale (Nummer vier: I don’t want to be involved in this; I don’t want to be part of this; Talk me out of this del 2005 o in Nummer zeven: The clouds are more beautiful from above, 2006). Non esistono trame, inizi o fini che siano realmente percepibili: quel che va in scena è l’esplosione di un momento, un attimo che non sarebbe possibile spiegare altrimenti.
Nummer acht, Everything is going to be alright 2007 16mm to HD 10'10
Andando continuamente alla ricerca di quel rapporto diretto con il pubblico – tipico del musicista con i propri ascoltatori – Guido van der Werve riesce nella difficile impresa di portare all’astrazione le proprie esperienze e i propri sentimenti privandoli il più possibile di diretti riferimenti al suo percorso personale, tanto da poterli rendere universali. La sua figura si riduce sempre di più, fino ad essere un puntino fino a confondersi con la maestosità del resto (Nummer acht: Everything is going to be al right, 2007 e Nummer twaalf: Variation on a Theme, 2008).
Elemento costitutivo del suo essere artista visivo è la presenza del movimento, che sia esso quello della musica o che si tratti di quello fisico. Parlare del van der Werve artista, infatti, non può prescindere dal profilarne l’identità di sportivo, ormai da diversi anni, caratterizzazione che ha dato struttura non solo al suo fisico, ma anche alla peculiarità stessa delle sue performance. Non ultimo, e con uno sguardo anche alle imprese gloriose di Alessandro il Grande, il suo viaggio a nuoto, in bici e a piedi tra Varsavia e Parigi (Nummer veertien: Home), sulle orme di Fréderic Chopin, nato in Polonia e morto in Francia senza mai rivedere la propria casa. Una corsa lunga chilometri e chilometri, circondato dai volti sorpresi degli astanti, come un moderno Forrest Gump dotato di una destinazione precisa. Una corsa che è insieme un modo per rischiarare la mente e costruire esperienze uniche e sublimi nella loro classicità. Solo con il proprio corpo, l’artista costruisce una sfida con se stesso, passando per uno sforzo che in qualche sorta conduce ad un risultato. 
Guido van der Werve, Nummer zeventien killing time - attempt one: from the deepest ocean to the highest mountain, 2015, installation view at Monitor, Rome Photo credit: Massimo Valicchia Courtesy: the artist and Monitor, Rome
Nel nuovo lavoro presentato a Roma – con uno sguardo al Nummer dertien, emoziona poverty (2011) durante il quale van der Werve correva ripetutamente intorno a una casa –, lo sforzo dell’artista sembra rimanere concentrato in uno spazio contratto, quello dell’ambiente casalingo del suo appartamento finlandese, in particolare dello spazio chiuso dei due ambienti specifici del bagno e della camera da letto. Nella doppia performance un Guido ripete un passo dopo l’altro nella stessa posizione, i piedi immersi nell’acqua della propria vasca da bagno, fino a raggiungere il punto più profondo dell’Oceano. Dall’altra parte, il Guido che si lancia su di un letto sfatto prova a raggiungere la vetta più alta e insormontabile del monte Everest. A tratti stanco ed annoiato, l’artista compie uno sforzo inutile che, sulla carta, lo dovrebbe portare a compiere due imprese incredibili, nella realtà lo relega in pochi metri quadri di spazio. L’atto del camminare, divenuto statico, è la sinterizzazione concettuale dei chilometri attraversati in estensione geografica dei lavori precedenti. Un movimento interno, quello della riflessione, che si concentra nello spazio-casa, anch’esso tradotto su un piano linguistico: la ‘casa’ non è più quel luogo-non luogo da ritrovare, da raggiungere. 
L’atto, apparentemente congelato in potenza, si compie metaforicamente nella sua pienezza.
La casa è un pensatoio verticale.

Alessandra Caldarelli

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