17 gennaio 2017

I ♥ CERAMICA. E FAENZA

 
MIC e MCZ, ovvero due acronimi per scoprire un'anima della Romagna, tra passato e contemporaneo. Senza dimenticare una zona che è anche molto performativa. E ghiotta

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Altra area d’Italia, altro distretto ceramico, diviso tra tradizione artigiano-artistica, e industriale. Benvenuti a Faenza, provincia di Ravenna, dove per iniziare vi accoglie un’istituzione unica: il Museo Internazionale delle Ceramiche (MIC), e la sua storia avvincente: nato nel 1908 – per raccogliere la produzione dell’omonimo Premio Biennale – e distrutto nel 1944, fu riaperto nel 1949 dal fondatore Gaetano Ballardini, che chiese a musei, fondazioni, collezioni e artisti (all’appello risposero anche Picasso e Chagall, per dirne un paio), di donare un’opera (in ceramica ovviamente), per ricominciare la vita di quella che è la collezione di questo genere più vasta del mondo. 
E così oggi chi visita il MIC può scoprire tecniche e colori di antichissimi pezzi orientali, cinesi e giapponesi, gli strumenti “privati” della cerimonia del tè, le ceramiche dell’antichità classica e quelle del vicino Oriente, splendidi manufatti turchi o spagnoli con decori che hanno letteralmente attraversato millenni e che ancora esercitano un fascino che non accenna a spegnersi. Fino ad arrivare ai primi esemplari firmati, come la Coppa Bergantini che ritrae il sacrificio dell’eroe romano Marco Curzio, datata 1529, o i celebri “Bianchi di Faenza”, che dalla metà del ‘600 iscrivono le vettovaglie nel rango degli status symbol.
Alberto Burri, Nero e oro, al MIC di Faenza (particolare)

In effetti la storia della ceramica, nel suo utilizzo artistico sia come arte applicata che come opera, segue la storia della società, e scoprire tra le vetrine del MIC la produzione dell’ultimo secolo è una passeggiata tra Maestri e correnti, passando da Leoncillo a Enrico Baj, dai pezzi informali di Giacinto Cerone fino ad Arman, Betty Woodman, Mendini o Alberto Burri, con uno straordinario Nero e Oro, donato al museo nel 1993, uno dei rarissimi pezzi che il grande italiano realizzò con questo materiale.
Il Museo Carlo Zauli è invece dedicato alla produzione dello scultore che da Faenza rivoluzionò l’arte ceramica tramutandola in arte e basta, alla stregua dei colleghi che lavoravano sull’altra costa, il Liguria, ad Albisola, dove si era riunito il gruppo CoBrA e dove aveva trovato “casa” anche Lucio Fontana (di cui al MIC potrete scoprire uno splendido Cristo in Croce). Il Museo Zauli ha da pochissimo inaugurato il suo nuovo allestimento, collocato nello stesso studio dello scultore, dove si possono scoprire periodi e colori, dalle forme più minimali degli anni ’60 alle concrezioni degli anni ’70, quando nemmeno la ceramica poteva sottrarsi al clima degli anni di piombo, fino al Vasi Sconvolti, veri e propri risultati di atti performativi dove Zauli, nella scena di un atto tragico, toglieva la vita – con gli attrezzi più disparati – alla perfezione di un vaso appena formato, portandolo non più a materia informe ma a scultura Informale, o se possibile Espressionista.
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Il Museo Carlo Zauli (MCZ) è stato poi una delle prima realtà italiane a proporre un progetto di Residenze d’Artista, all’epoca (nel 2003) in collaborazione con Fondazione Bevilacqua La Masa, e portando nel corso degli anni da queste parti una serie di artisti internazionali, tra cui gli ultimi Jonathan Monk, nel 2015 (in home page Untitled – White Vase), ed Emma Hart, vincitrice del Max Mara Art Prize for Woman, che è rimasta qui per tre mesi, imparando con Aida Bertozzi (storica ceramista e assistente di Zauli, nello studio dal 1979) le tecniche del mestiere, come parte integrante del suo progetto di residenza.
Monk invece è stato “colpito” da uno splendido barattolo chiuso da 50 anni, inverditosi a causa del suo contenuto: solfuro di rame. Ne ha realizzati, sempre con l’aiuto di Aida, tredici. Un omaggio non solo al Maestro, con un oggetto misterioso e segnato senza ritorno dal passaggio del tempo, ma anche alla “vita” della ceramica, ad uno dei principali pigmenti per la colorazione di questa materia che, lo stesso Zauli, plasmò in dimensioni differenti, anche attraverso commissioni che oggi – ci racconta il figlio Matteo, direttore del Museo –  sono difficili da recuperare, per la mancanza di un archivio che rende la ricerca difficoltosa, ma non per questo meno affascinante, anzi. Un po’ come la storia del grande decoro parietale in un palazzo di Baghdad, realizzato nei primi anni ’60, e attualmente dal destino sconosciuto. E poi le sculture del Maestro in argento, venate d’oro, mai tradendo una dimensione puramente decorativa, ma in perenne ricerca.
E a proposito di condivisioni, residenze e performatività, ci sono almeno un altro paio di episodi “locali” che vale la pena di raccontare: il primo si potrebbe definire come l’evento “social” per eccellenza. Di che si tratta? Ve lo raccontiamo con lo slogan: “Postrivoro è un animale immaginario. Immaginario e saltuario. Postrivoro è un luogo immaginario. Immaginario e saltuario”.
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Si tratta di una serata speciale, a cadenza circa stagionale, nata dall’iniziativa di un gruppo di giovani nel 2012, che invita a turno un grande chef internazionale in residenza a Faenza per un week end e – per 25 persone – si mette in atto la possibilità di partecipare a una cena conviviale e allo stesso tempo esclusiva, dove a turno sono invitati artisti a realizzare la tavola. Gli inviti? Sono una vera caccia al tesoro, e solo pochissime ore prima potrete sapere dello svolgimento della cena. Il menù? Ovviamente segreto, in barba – perdonateci – a vegetariani, vegani o rettiliani, che dovranno accontentarsi dell’iniziativa creativa dei cuochi stellati invitati, e del sommelier accoppiato, e abbandonarsi all’esperienza. Un’iniziativa che ha catturato anche il team di AirBnb, che ha messo “Postrivoro” nelle experience da dedicare durante un ipotetico soggiorno fiorentino. Che c’entra Firenze? Per gli americani di questa formidabile formula c’entra eccome: Faenza è collegata da un piccolo trenino al capoluogo toscano. E il gioco è fatto.
Per chi preferisce invece la vita “da bar” ci sono i cocktail e la cucina vegetariana, questa sì, di Clan Destino e Angusto, uno dei club più cool d’Italia nato nel 1988, dove hanno suonato tutte le band più interessanti d’Italia e non solo, che si trova proprio nello stesso building del MIC. E se invece avete bisogno di grande tipicità, provate il ristorante di Alieto. Un nome che è un programma, un po’ come quello che esce dalla cucina.
Matteo Bergamini

2 Commenti

  1. Devo dire, che chi ha scritto l’articolo,ha volutamente o peggio ancora inconsciamente, omesso altri musei-fondazioni presenti nella città.

    I miei più sinceri complimenti per la Vostra professionalità.

  2. Caro Luca, un articolo segue un taglio, in questo caso senza la pretesa di coprire un’intera città. Se ci fa sapere che abbiamo omesso di così imprescindibile ne terremo conto per il futuro.
    grazie!

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