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Un’opera fredda come il ferro e il vetro, eppure corale, come un rito al quale, volenti o nolenti, si deve partecipare. Il lavoro di Anne Imhof per il Padiglione Germania della 57.ma Biennale di Venezia bilancia sensazioni e pratiche, con una sapienza un po’ sciamanica, nel pieno del tema di Christine Macel, ma anche teutonica, rigorosa, per l’accostamento dei materiali.
Oltre la superficie di vetro, che alza il livello del padiglione di più di un metro, si vedono molti oggetti, guanti, fionde, manganelli, recipienti, cuscini, accantonati sul vero pavimento del padiglione. Un mondo evidentemente in azione, vitale ma sviluppato al di sotto della barriera trasparente, l’altra parte che però non è nascosta, alla Vito Acconci, ma luminosa. Il lieve brivido di vedersi sospesi – e lo stupore è qualcosa di raro da trovare in questa Biennale – trova una stabilità provvisoria in quei segnali di vita, come una sorta di scala di misura alla quale fare riferimento. Ci si ricorda di Joseph Beuys ma non è un richiamo esplicito, più qualcosa di sussurrato, che apre ad associazioni di pensiero libere ma poi non troppo, una traccia lasciata nella disposizione di certi elementi, nella scelta delle materie prime.
Si sta spiando qualcosa che deve accadere, il padiglione è un dispositivo ambientale concepito per risultare esteticamente indipendente ma adatto ad assorbire lo svolgimento cronologico di azioni e gesti, uno spazio che non ha la visceralità del sacro ma ne conserva l’inquietudine. Alcuni performer salgono su elementi di ferro e vetro aggettanti dal muro e guardano lo schermo del proprio smartphone, si siedono, mimano passi di danza non sincronizzati. La pièce finisce, l’architettura, questa forma scultorea e organica pensata da Imhof, torna al grado prossimo a quella neutralità narrativa che seduce.
Due dobermann sono seduti in un recinto nel cortile esterno del padiglione e ricambiano pigramente lo sguardo delle persone. Anche la loro presenza fa parte di un codice. (MFS)