19 novembre 2017

CURATORIAL PRACTICES

 
Hämatli & Patriae: intervista a Nicolò Degiorgis che al Museion di Bolzano continua sui concetti di migrazione e identità
di Camilla Boemio

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Nicolò Degiorgis insegna fotografia artistica all’Università di Bolzano e nelle carceri del capoluogo. È fondatore della casa editrice Rorhof e curatore presso la galleria foto-forum di Bolzano. Come artista fotografo, ha all’attivo diverse mostre in istituzioni e rassegne nazionali e internazionali.
I suoi lavori sono stati esposti presso la 16esima Quadriennale d’arte di Roma ed alla Fondazione Sandretto. Per il suo libro “Hidden Islam” gli è stato conferito il premio come miglior pubblicazione d’autore dal prestigioso Festival Recontres d’Arles nel 2014. Degiorgis è il guest curator 2017 al Museion, il museo d’arte moderna e contemporanea di Bolzano.
Siamo in una fase di stratificate complessità globali. Ritengo sia doveroso per l’arte contemporanea occuparsi delle problematiche della società. La mostra che stai curando al Museion è focalizzata intorno ai concetti di patria e Heimat. Ce ne puoi parlare, illustrandoci come hai sviluppato inizialmente la tua ricerca e successivamente la narrazione della mostra?
«Da anni i miei progetti ruotano intorno al tema della migrazione e dell’identità. Ciò è in parte dovuto alla mia esperienza personale, in parte al momento storico che stiamo attraversando. Ho colto l’opportunità di curare la mostra a Museion per sviluppare ulteriormente la ricerca mettendo in dialogo il concetto di Hämatli con il concetto di patria. Hämatli, etimologicamente alla radice della parola Heimat, è un termine tedesco, non traducibile in altre lingue, che denota un sentimento di appartenenza di un individuo con l’ambiente geografico, sociale e culturale circostante, in particolar modo con il luogo natio che contraddistinguere la sua identità, il suo carattere, la sua mentalità e la sua visione del mondo. È un sentimento soggettivo, che però può essere vissuto anche da una collettività. Inizialmente la parola denotava il luogo di nascita di una persona, senza però ascriverla ad una nazionalità precisa. Associando il concetto di patria a quello di Heimat si crea una relazione tra due lingue e culture distinte, ma anche tra due concezioni diverse di relazionarsi con lo spazio, una di matrice sociale e culturale, la seconda legata alla politica e al nazionalismo. A livello narrativo la mostra prende spunto da un dipinto fiammingo del 1570 di Simon De Myle che narra dello sbarco dell’arca di Noè, situazione solitamente rappresentata nel momento della partenza. Personaggi, situazioni, animali e oggetti all’interno del dipinto sono stati riproposti in mostra tramite video, fotografie, sculture, documenti, disegni e libri d’artista. Prendendo spunto da questa scena curiosa, a tratti grottesca, la mostra si presenta come una grande mise-en-scene del dipinto stesso, che diviene così la struttura, fisica e concettuale, del percorso espositivo. Passata la prima sezione della mostra, ci si trova immersi in una grande camera oscura, che riflette l’immagine capovolta dell’esposizione includendo i visitatori stessi».

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Hämatli & Patriæ, exhibition view at Museion 2017. Foto Luca Meneghel
Una serie di ulteriori dialoghi ampliano la narrazione partendo dai due concetti principali: Il confronto tra l’Oriente e l’Occidente_ tra l’altro tu hai vissuto e studiato a lungo in Cina; la preda e i predatori, la terra e il mare, la frontiera e l’orizzonte. Puoi parlacene?
«I dialoghi solitamente si sviluppano tra due lavori che utilizzano il medesimo linguaggio. Nel caso di Oriente ed Occidente si tratta di due video: The Challange di Yuri Ancarani e Alpi di Armin Linke. Entrambi i documentari sono privi di una narrazione in senso classico e indagano rispettivamente il contesto degli Emirati Arabi e dell’arco alpino. Nel caso della preda e del predatore si tratta di due video provenienti da Youtube. Uno mostra il capovolgimento di un barcone di immigranti diretti verso l’Italia di fronte alle coste libiche documentato dalla Marina Italiana, l’altro un bombardamento in Libia da parte di un elicottero dell’esercito britannico, anche esso documentato dalla telecamera dell’elicottero stesso. Anche il dialogo tra terra e mare si struttura tra due video, Volga dell’artista ceceno Aslan Gaisumov, che narra di un viaggio, o meglio della fuga dell’artista insieme ad altre venti persone stipate a bordo di un’unica automobile per sfuggire da Groznyj durante la prima guerra cecena, in dialogo con un altro video, Kwassa Kwassa del collettivo danese Superflex, che ritrae il lavoro di un costruttore di barche su un’isola Comore nell’Africa Orientale. Le barche trasportano migranti verso la vicina isola di Mayotte in territorio francese e quindi europeo – un attraversamento che ha già contato più di 10mila naufraghi. Per quanto riguarda il confine e l’orizzonte abbiamo restituito in mostra una parte delle cartoline compilate e raccolte presso il museo Plessi, situato sull’autostrada del Brennero, sulle quali avevamo posto la domanda “E se l’orizzonte non fosse il confine?” e che il pubblico di passaggio poteva compilare con riflessioni personali».
Un lavoro in particolar modo colpisce facendo ritornare alla memoria i primi migranti che arrivano in Italia dall’Albania nel 1991 a bordo della nave Vlora. Puoi parlarci degli artisti e dei lavori che hai scelto? 
«La mostra si struttura intorno all’idea di dialogo, inteso come strumento per amplificare sfaccettature e differenze, piuttosto che portare ad una visione univoca e conseguentemente ad un’omologazione. La scelta dei lavori e degli artisti presenti in mostra è molto eterogenea, sia per quanto riguarda gli aspetti formali, sia per quanto riguarda le ricerche artistiche. Ho voluto accostare artisti affermati ad artisti emergenti, e documenti di vario tipo ad opere d’arte in senso canonico. Tutto ciò è dovuto non solo alla scelta tematica ma anche alla scelta narrativa e concettuale di sviluppare una mostra partendo dal racconto dello sbarco dell’arca di Noè, in cui è la preservazione dell’eterogeneità il suo fondamento portante. La mia priorità è stata quella di creare una mostra che dialogasse con un pubblico esterno al sistema dell’arte, dato che è costui a rappresentare gran parte delle persone che visita un museo pubblico quale Museion, cosciente però di suscitare scetticismo da una parte radicata più profondamente nel sistema. Mi piace gravitare attorno al mondo dell’arte e utilizzarne i linguaggi per indagare tematiche che lo oltrepassano, evitando di creare ambienti isolati e alienanti nei quali è la soggezione a prevalere sulla riflessione. Ritengo che l’arte contemporanea non solo possa permettersi il lusso, ma abbia il compito di andare a toccare tematiche complesse senza necessariamente portare ad una denuncia in senso stretto, ma piuttosto permettere visioni e interpretazioni soggettive e caleidoscopiche di ciò che ci circonda. Non essendo curatore ho potuto creare una mostra che si articolasse come una grande installazione pensata per includere non solo le opere, ma lo stesso pubblico».
Trovo interessante avere impostato una doppia programmazione che affianchi la mostra principale. Articolando all’esterno del museo delle presentazioni parallele in contesti inediti all’arte, necessari per garantire nuovi stimoli alla collettività. Puoi parlarci delle cinque presentazioni dei libri d’artista? 
«L’inaugurazione della mostra è stata preceduta dalla pubblicazione di cinque libri d’artista che in vario modo indagano le tematiche riproposte in mostra. I libri sono stati installati al piano terra del museo e in luoghi tematicamente connessi ai libri ma lontani dalla fruizione dell’arte contemporanea. Il primo luogo coinvolto è stata la scuola elementare Alexander Langer di Bolzano, con la quale abbiamo intrapreso assieme a due classi un percorso che ha portato gli studenti a personalizzare una mia pubblicazione, ovvero il mio quaderno delle elementari di Heimatkunde. Ulteriori luoghi coinvolti sono stati il villaggio Eni di Borca di Cadore con l’installazione di Peak, un libro nato nelle dolomiti cadorine, il seminario Maggiore di Bressanone con la presentazione di Hidden Islam, un libro che indaga gli spazi adibiti a moschee nel nord-est Italia, il museo Plessi sull’autostrada del Brennero, già menzionato precedentemente, ed infine un compendio di esercizi fotografici dei detenuti del carcere di Bolzano, intitolato Prison Photography, che ho sviluppato nei precedenti quattro anni durante il corso di fotografia che ho insegnato all’interno dell’istituto penitenziario e che è stato esposto all’interno del suo cortile. Tutti i cinque libri sono poi divenuti parte integrante del percorso espositivo».
 
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Henrik Håkansson, Vertical Swarm (Sturnus Vulgaris) #01, installation view (detail), Museion 2017. Foto Luca Meneghel. Collezione Privata

Leggevo proprio qualche giorno fa un articolo di Ronald Jones, con Trump è tornato in auge il concetto di Machiavelli “È meglio essere temuti che essere amati”. Quanto siamo, in Italia, cittadini consapevoli che contrastano gli aspetti più turpi del potere, e partecipano attivamente alla società?
«Trump rappresenta l’affronto populistico alla democrazia più significativo avvenuto in occidente in tempi recenti . Per quanto possa essere temuto e la sua popolarità sia in calo, è tuttora amato da una grande fetta della popolazione. Infatti la sua candidatura è stata sostenuta dal partito repubblicano e lui eletto democraticamente. Anche in questo caso credo che di base ci sia una forte crisi identitaria, in questo caso partitica. Lo stesso discorso vale per un Paese come l’Italia, dove l’avvento della Lega Nord e del partito dei Cinque Stelle pone i cittadini di fronte a identità politiche più dinamiche e meno circoscritte. Non saprei dire se in Italia viviamo più o meno la nostra cittadinanza consapevolmente rispetto ad altri Paesi occidentali».
Come si forma la memoria del passato, ispirando il futuro della res publica?
«In prima linea favorendo la cultura e la pedagogia, entrambi settori che risentono profondamente di un sistema neo-liberale osannato a crescere a loro discapito».
Camilla Boemio

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