14 gennaio 2018

Diario Indiano/3

 
Agra, Khajuraho e Varanasi, lasciando Udaipur e pensando a quella che, forse, è un'utopia. Nell'ultima tappa di un'India “sfacciata e complessa”

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YV. Il workshop è terminato, siamo ricoperti dalla testa ai piedi di pigmenti color giallo e viola: mi trovo con il team Art Junction Residency, con cui ho curato questo progetto, e i bambini che hanno preso parte all’esperienza. Un pomeriggio dedicato a scoprire nuove cose, a sperimentare, a colorarci e a usare il corpo con totale libertà. Ci troviamo a Baganda, un villaggio limitrofo alla città di Udaipur, tra le montagne e una rigogliosa foresta. In questo villaggio vivono circa mille persone: i suoi abitanti svolgono attività rurali e vivono dentro case piccine ed essenziali, poco più che capanne che sembrano consolidate soltanto con il fango. Ad ogni sopralluogo dei giorni precedenti, a Baganda raggiungiamo la piccola “bottega” di una donna indiana che, con uno strumento di pietra, atavico da sembrare di epoca preistorica, alimenta la fiamma per cucinare il nostro Chai. Anche qui, come nelle città, le donne indossano abiti sempre colorati, bracciali, anelli e cavigliere brillanti, nonostante la dimensione di povertà. 
Quando terminiamo il progetto – un workshop partecipativo che vuole sensibilizzare la comunità a valori quali l’uguaglianza e la parità di genere, e a riflettere sull’imposizione castale – i bimbi sembrano essersi trasformati: da una timidezza e una diffidenza iniziali, finalmente si manifestano il coraggio e lo stupore, quello incontenibile che rende tutti i bambini del mondo legati da una spontaneità e una bellezza proprie dell’età infantile. 
Provo a immaginare cosa significherebbe se piccole azioni come queste si portassero in ogni villaggio dell’India, quali esiti e quali effetti potrebbero manifestarsi sull’educazione delle future generazioni, sullo sviluppo delle attitudini e delle capacità dei bambini che ancora oggi non hanno opportunità di libera scelta, poiché, per loro, sono già destinate una professione e un matrimonio combinato dettati dalla casta di appartenenza.
Lascio Udaipur con questi pensieri, con la voglia di tornare e ricominciare da capo. Il mio progetto di residenza in India deve proseguire. Negli ultimi giorni ci spostiamo in tre città: Agra, Khajuraho e Varanasi. Tre città significative. 
La prima simbolica, la città d’impronta Moghul con il suo Taj Mahal, una perla sovradimensionata, un mausoleo unico al mondo che rappresenta l’amore struggente dell’imperatore Shah Jahan, che lo costuì per celebrare la morte della sua sposa. Il Taj Mahal sembra essere un’allucinazione (o forse un “miraggio” se si pensa alle riflessioni di Moravia dedicate all’India) in mezzo ai bazar e all’asprezza sociale che lo contornano. 
Sono lunghe le ore di viaggio in treno per la prossima meta, ma ne vale la pena per raggiungere Khajuraho, la città dell’amore tantrico che si salvò dalle devastazioni musulmane durante la dominazione. Questa piccola città si presenta sin da subito con un’atmosfera diversa, è più piccina e attorniata da una natura inviolata, sappiamo che costituisce una testimonianza unica dell’India medievale: ci mettiamo alla ricerca dei suoi templi di matrice induista. Il complesso occidentale, risalente al X secolo DC, è quello raccolto in un’area meglio conservata in cui i templi spiccano con architetture scalari a forma di grandi campane vibranti (un vero peccato la scelta del pratino inglese tutt’intorno – in origine era una jungla intima ad accoglierli). Ogni tempio, come nella tradizione induista, è dedicato a un dio la cui scultura è protetta nel nucleo centrale dell’architettura. Ma sono gli altorilievi esterni a costituire il patrimonio più significativo e intrigante: esempi unici in tutta l’India, i templi di Khajuraho sono ricamati con sculture che rappresentano figure femminili, in posizioni curvilinee squisitamente sensuali, o coppie di figure impegnate nell’atto sessuale che colpiscono per il loro dinamismo carnale. Corpi aggrovigliati, intrecci animaleschi, abbracci amorosi, amplessi passionali e pindarici emanano un erotismo toccante, singolare in tutta la storia dell’arte antica. Una ricerca del piacere che non è fine a se stessa ma che sembra essere un invito sacro all’osservazione dei sensi, un’esemplificazione di ciò che, naturalmente, apre la strada alla vita. Durante i giorni di studio e osservazione di questi templi, nasce una ricca documentazione fotografica grazie all’artista indiano Lalit Choudhary.
Ripartiamo per l’ultima tappa: dalla vita e dall’amore erotico, ci spostiamo a Varanasi, la città sacra in cui gli indiani desiderano essere cremati dopo la morte. L’esperienza sulle rive del Gange è inizialmente stremante poiché qui le cremazioni avvengono a cielo aperto: roghi diurni e notturni bruciano corpi inermi (fino a 400 al giorno), le cui ceneri vengono successivamente spase nel fiume sacro in cui i vivi vengono contestualmente a meditare, a lavarsi, a purificarsi. Le barchette accompagnano incessantemente i “visitatori” a vedere i rituali sacri, in cui talvolta si scorgono suoni e visioni repentine dei corpi bruciati. Figlia della cultura occidentale del XX secolo, e di una nonna ebrea, penso per un attimo ai crematori nazisti; ma è solo un momento (di fronte a me un corpo in decomposizione) perché capisco che qui gli indiani stanno celebrando il momento sacro di passaggio, di abbandono di questo corpo in favore di un altro, della reincarnazione: di fatto è un momento di rinascita. In questo luogo di raccolta della morte, mi accorgo allora di essere nuovamente di fronte a un sottile augurio alla vita.
L’India è così, complessa e sfacciata, ma anche ermetica e sempre drammaticamente alternativa. Il suo fascino ha qualcosa di terribile, per questo la si ama. Il “mal d’India”, quella sensazione di non volerla lasciare, è già cominciato. Come anche il desiderio di tornare…
Francesca Ceccherini
14/01/2018

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