21 ottobre 2018

L’intervista/ Sergio Lombardo

 
CONTRO IL QUADRO ANONIMO
Due mostre, i quadri stocastici e la Roma di ieri e oggi. A tu per tu con un protagonista italiano

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Negli anni ’60, con i suoi Gesti Tipici Sergio Lombardo è uno dei maggiori esponenti della Scuola di Piazza del Popolo, il gruppo di artisti Pop che comprende Schifano, Fioroni, Angeli, Pascali, Kounellis, Mambor, Tacchi, Festa stretti intorno al gallerista Plinio De Martiis a Roma. Dagli anni ’80 Lombardo realizza composizioni matematiche variabili che chiama Pittura Stocastica in grado di stimolare interazioni inconsce nello spettatore.
Una composizione stocastica di Lombardo degli anni ’90 appare nell’allestimento del nuovo Macro riaperto al pubblico pochi giorni fa mentre, sempre a Roma e contemporaneamente alla mostra dell’Asilo, l’artista presenta i suoi ultimi lavori chiamati Quilting alla Galleria Unosunove offrendoci l’occasione di capire la sua evoluzione artistica.
Incontriamo Sergio Lombardo nel suo studio per raccogliere le sue riflessioni sul nuovo Macro e la sua visione dell’arte e di Roma nel mondo globalizzato.
Cosa pensi del nuovo allestimento del museo MACRO? Una tua opera è esposta in ciò che il nuovo direttore Giorgio De Finis ha chiamato la “Quadreria” che raccoglie i quadri della collezione su un’unica parete.
«Non ho visto la mostra del Macro ma se, come sembra, chi allestisce un museo reinterpreta le opere (come la mia) già pensate originariamente come installazioni assemblandole con altre opere che non erano installazioni, allora fa una nuova opera che per essere giudicata andrebbe firmata e datata».
Mancano le didascalie.
«Mancano i dati storici, l’autore, il titolo e la data: è un problema. Non sarebbe più un problema se chi allestisce la mostra ci mettesse la firma dichiarando che questa composizione a forma di mosaico è opera sua. Ma prima dovrebbe chiedere agli autori il permesso di fare un’installazione con la loro opera. Un’installazione è un’altra opera (che comunque non si fa usando gli originali). C’è stato un periodo storico in cui gli artisti facevano performance, installazioni, happening. Nel caso specifico, le opere di Mottola e la mia erano già installazioni, non erano quadri».
Duchamp fece un’installazione con un Rembrandt come tavolo da stiro, e la firmò Duchamp.
«Infatti il problema della “Quadreria” del MACRO è di forma: per esistere deve essere firmata. Non puoi usare un quadro come una cosa anonima, le opere della collezione del Macro hanno ognuna un titolo, un autore e una data. Penso che tutti i direttori dei musei pubblici abbiano il dovere di consultare gli artisti “storici”, sennò si corre il rischio di distruggere l’identità italiana».
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QUADRERIA, Museo MACRO, Collezione della Sovrintendenza Capitolina ai Beni Culturali, 61 opere.

Come sarebbe la cultura italiana se i tuoi valori fossero riconosciuti?
«L’Italia sarebbe leader dell’estetica mondiale perché è fondata sul pensiero futurista, un pensiero avanzato che ha avuto un’evoluzione scientifica».
Quali valori rappresenta il tuo lavoro?
«Dei valori che saranno capiti da tutti tra cinquant’anni. Faccio delle opere senza centro e senza contorno, creo delle forme imprevedibili composte in modo matematicamente complesso, in modo tale da stimolare il pubblico a proiettarvi contenuti personali, anche contenuti inconsci, sempre diversi. La differenza tra il lavoro degli Astrattisti e il mio è tutta lì: loro creano istintivamente quindi sono artigiani, dal mio punto di vista quasi folcloristici, io sono uno scienziato che fa sperimentazioni sull’estetica, facendo delle ipotesi e misurando i risultati degli esperimenti. Io offro al pubblico un’interazione specializzata».
Come mai queste sperimentazioni oggi le fai solo attraverso la pittura e non più attraverso le performance?
«L’happening è stato fatto negli anni ‘50 da Allan Kaprow sulla scia futurista, anch’io più tardi ho fatto degli happening, ma abbiamo capito che l’interazione fisica del pubblico era superficiale, mai profonda, né creativa. Io cerco un livello superiore di interazione, ormai l’interazione dei vecchi tempi è obsoleta, come il vecchio teatro. Il teatro aveva dei contenuti fissi, Giulietta e Romeo è stato rivoluzionario perché ha presentato una coppia di traditori minorenni (considerati all’epoca criminali) come belli e interessanti perché innamorati».
È merito di Shakespeare che li ha trasformati in un ideale di amore libero.
«Esatto, e questa è l’evoluzione del contenuto estetico, i nuovi valori. È un modo nuovo di vedere il mondo. Ma quel contenuto è unidirezionale e fisso: passa dall’autore al pubblico, o lo capisci o non lo capisci. Oggi non ci sono più i sudditi, siamo cittadini, l’interazione deve essere alla pari, bilaterale, l’evoluzione è nello scambio di contenuti, non più nell’artista emanatore di contenuti fissi che il pubblico deve capire. Oggi è superata l’imposizione di una forma simmetrica, regolare, centrata. Se scegli di mostrarmi un quadrato o un triangolo (e qui siamo nell’astrattismo) mi imponi forme fisse che non hanno altri significati. Per arrivare alla pittura stocastica, devi percepire il mondo come continuamente dinamico».
Con la pittura stocastica, gli stimoli psicologici che crei non si limitano più a delle emozioni ma sono più complessi come i sentimenti.
«Assolutamente sì, io sono uno che fa partorire sentimenti al pubblico, non glieli do già fatti. E guardando i miei quadri anch’io divento uno spettatore come gli altri».
I tuoi dipinti funzionano come le macchie di Rorschach.
«Le macchie di Rorschach sono fatte in modo intuitivo, non sono i migliori stimoli proiettivi possibili. Io studio le forme matematicamente più evocative per un test psicologico simile a quello di Rorschach. Mentre il quadro astratto ha un contenuto fisso e arbitrario che viene trasmesso, nel quadro stocastico è l’inconscio che crea contenuti sempre diversi, è un universo dinamico che non si satura. È un’altra cultura».
Se l’astrattismo è un’imposizione di valori fissi, immagino che l’arte figurativa oggi sia ancor più insostenibile.
«Una volta il pittore era quello che sapeva copiare la realtà, oggi quel tipo di pittura non è più attrattivo anche se qualcuno ci crede ancora, è una cultura superata, residua, moralistica perché sono significati fissi».
I significati fissi sono invadenti.
«Sì perché creano un disagio nello spettatore, inculcare certezze è assolutista. I miei quadri non si contemplano, si usano per capire sé stessi, gli stati d’animo, un po’ come uno specchio».
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Dettaglio della Quadreria, Museo Macro, Roma, 2018 ; dipinto in basso di Sergio Lombardo, Mappa minimale toroidale di 5 paesi e 4 colori, 1997, vinilico su tela, cm 480 x 360 ; Tavolo di Michelangelo Pistoletto.

Che rischio rappresenterebbe se il Pompidou o il MoMA facessero la stessa operazione di De Finis, mettendo i quadri della loro collezione su un’unica parete?
«Tutti in una parete, senza date e senza nomi? Se il Pompidou o il MoMA facessero questo, i cinesi diventerebbero i leader mondiali dell’arte. Finora è la storia dell’arte occidentale che impedisce ai Cinesi di diventare leader. Ma rinunciare ai dati storici dell’arte equivale a consegnare il primato ai più forti. I cinesi amano la storia dell’arte e rispettano l’Occidente ma hanno un’altra estetica, propongono una visione politica diversa. Però non hanno ancora raggiunto l’apice della ricerca mondiale, i loro valori non sono ancora attrattori della cultura globale, non sono abbastanza nuovi».
Cosa manca ai cinesi per diventare i leader della cultura globale?
«Non hanno la storia dell’arte, l’Occidente ha avuto l’esclusiva per millenni. Oggi stiamo perdendo l’esclusiva perché non contano più i musei e la ricerca, ma ci siamo messi a fare il mercato dell’arte senza la ricerca, un mercato quindi dell’ignoranza, dove l’arte si mescola con i falsi, le aste pilotate, le leggi economiche e i trattati commerciali internazionali».
Cos’hanno invece in più dell’Occidente i cinesi?
«Il collezionismo cinese è diventando importante, i cinesi comprano e si studiano il passato e il presente per arrivare al futuro, investendo sui musei e sulla ricerca (l’università) proprio ciò a cui gli Occidentali stanno rinunciando. Roma però è stata il laboratorio del Futurismo e rifiutando il mercato americano negli anni ’60 è andata avanti da sola, molto avanti».
Questa emarginazione di Roma dal mercato non ha impedito che rimanesse un attrattore culturale anche se l’arte romana è ancora da definire.
«Roma ha proseguito la ricerca senza aiuti economici. La Storia dell’Arte romana che viene dal Futurismo non è ancora stata studiata. Penso che Roma abbia un grande ruolo nell’arte mondiale».
Raja El Fani

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