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Riscrivere il presente, attraverso frammenti di passato: la mostra a Parigi
Mostre
A cura di Elisabetta Pagella, la mostra Même si les statues meurent, ospitata da Espace Parallèle a Parigi, prende il titolo dall’omonimo cortometraggio realizzato nel 1953 da Alain Resnais e Chris Marker. Quest’opera cinematografica, considerata fondamentale nel panorama del pensiero postcoloniale, denunciava già nel secondo dopoguerra la museificazione violenta e la neutralizzazione simbolica delle arti e dei manufatti extraeuropee da parte dei processi coloniali. Le parole che aprono il film, «Quando gli uomini muoiono fanno il loro ingresso nella storia, quando le statue muoiono fanno il loro ingresso nell’arte», mettono in discussione la trasformazione dell’oggetto rituale in oggetto estetico e la conseguente rimozione dei sistemi di significato e delle funzioni originarie a esso legati. Cosa sopravvive dell’opera d’arte quando viene sottratta al proprio contesto? E quale funzione può ancora assolvere nel presente?

La mostra si articola come un’indagine collettiva sulle possibilità dell’arte di aprire spazi di resistenza, cura e riscrittura. Le opere in mostra si muovono lungo faglie ancora aperte, dove il passato entra in collisione con il presente, la memoria sfuma nell’oblio e il senso di appartenenza si confronta con l’esperienza dello sradicamento. Ogni lavoro si offre come superficie sensibile attraverso cui riattivare un dialogo con la dimensione del sacro, dell’affettivo, del rituale o del marginale.

La mostra propone una selezione di sei giovani artisti internazionali. Nel recupero di tecniche artigianali ancestrali, come quelle degli Amantecas aztechi, maestri nella lavorazione delle piume, si innesta la critica di Omar Castillo Alfaro alla trasformazione coloniale della cultura in oggetto esotico. I suoi altari contemporanei, dedicati a divinità come Quetzalcoatl, incarnano la tensione tra sopravvivenza e spettacolarizzazione, tra memoria spirituale e museale. Una riflessione parallela, declinata in chiave biopolitica e identitaria, attraversa il lavoro di Christian Offman, dove le transenne, installate nello spazio espositivo, si trasformano nell’emblema di una condizione liminale — quella di chi vive in una sospensione costante, in attesa di riconoscimento, appartenenza, cittadinanza. Questa fragilità si riflette nella pratica di Sofía Salazar Rosales, che colleziona resti, gambi di banana e piccoli oggetti domestici per trasformarli in archivi affettivi. I suoi gesti di conservazione diventano strategie di resistenza contro l’oblio, tentativi di ricostruire una mappa del tempo vissuto attraverso ciò che resta.

La ricerca di Emanuele Cantò, analogamente, si concentra su frammenti intimi: immagini di famiglia, rituali estivi, gesti d’infanzia che si intrecciano ad una memoria collettiva. Le sue installazioni video combinano il calore della sfera domestica con la malinconia della distanza, come se anche la storia più recente fosse già soggetta a dissolvenza.

Con Alessandro Di Lorenzo, la riflessione si fa insieme materiale e simbolica. Il giogo — strumento agricolo tradizionalmente impiegato per unire due animali da tiro, come buoi o cavalli, affinché possano lavorare insieme trainando un aratro o un carro — si carica, in questo contesto, di stratificazioni. Rivestito di grafite, questo si trasforma in dispositivo conduttore non solo in senso materiale, ma anche metaforico: soglia di connessione tra passato e presente, tra dimensione sacra e funzione operativa, tra corpo e trasmissione di saperi.

Maria Ludovica Gugliotta, infine, attinge all’immaginario liminale del folclore, dando vita a un bestiario ambiguo e perturbante. I topolini che animano la sua installazione rappresentano una condizione umana intrappolata in un moto perpetuo attorno alla morte, come una danza da cui è impossibile sottrarsi.

Même si les statues meurent si apre come una frattura da cui filtra la possibilità di un altro sguardo. Qui, i “frammenti delle statue morte” non ricompongono un senso originario o perduto ma ne riattivano le tensioni. Così le opere in mostra non offrono risposte, bensì spazi in cui sostare.















