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Pamela Diamante: le Mangiatrici di Terra da Gilda Lavia, a Roma
Mostre
Laureata in Scultura all’Accademia di Belle Arti di Bari e specializzatasi in Arti visive all’Accademia di Brera, Pamela Diamante è un’artista visiva la cui ricerca si articola tra fotografia, installazione, suono e scrittura. La sua pratica consiste nel generare opere/dispositivi che mirano a interrogare la visione e la partecipazione dell’osservatore e che invitano ad agire criticamente all’interno dei meccanismi culturali e antropologici della conoscenza, della produzione economica e della comunicazione. Ha esposto in numerosi spazi pubblici e istituzionali, sia in Italia che all’estero. Tra le sedi più recenti si ricordano MO.CA di Brescia (2025) e la Fondazione Museo Montelupo Onlus di Montelupo Fiorentino (2024). Nel 2022 ha partecipato a una collettiva presso la Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano e nel 2023 è stata protagonista di una mostra al Mattatoio di Roma. Il suo lavoro ha avuto visibilità internazionale, con progetti ospitati al Ioseb Grishashvili Historical Museum di Tbilisi, al CerModern Arts Center di Ankara e al Kyiv History Museum. Nel 2020 le sue opere sono state presentate alla GAM – Galleria d’Arte Moderna di Torino, al PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano e al CaMusAc – Cassino Museo di Arte Contemporanea. Ha inoltre esposto al Concretespace di Miami (2019), al Kooshk di Teheran (2017), al MAXXI – Museo delle Arti del XXI secolo di Roma (2016) e al Centro de Desarrollo de las Artes Visuales de L’Avana (2015).

Abbiamo incontrato l’artista per ripercorrere l’ideazione di questo ultimo progetto per la galleria Gilda Lavia che si configura come una riflessione estetica e politica su corpi plurali, soggettività e contesti geografici, espressa attraverso un linguaggio visivo complesso e articolato, che si muove fluidamente tra memoria storica e realtà contemporanea.
Il titolo della mostra è molto evocativo: chi sono Le Mangiatrici di Terra? Come nasce questo tuo progetto?
«Le Mangiatrici di Terra sono donne, artiste, attiviste, intellettuali e persone queer del Meridione, soggettività che vivono il Sud o lo attraversano non come periferia subalterna ma come terreno politico da cui riaffermarsi. Il punto di partenza del progetto è proprio il peso storico e culturale dello stigma antimeridionalista, racchiuso nell’aggettivo dispregiativo “terrone”. La “mangiatrice di terra” inverte la subalternità in strumento di sperimentazioni di identità, resistenza e agency».

La mostra affronta tematiche legate alla collettività, al movimento queer e al contesto geografico del Meridione d’Italia. In che modo questi tre elementi si intrecciano nel tuo lavoro?
«Per me non si tratta di temi “da trattare”, ma di esperienze incarnate. Sono una donna meridionale e lesbica: la mia visione del mondo è inevitabilmente intersezionale. La collettività, il desiderio, la marginalità e il radicamento sono le coordinate stesse del mio vivere e del mio guardare».
Che tipo di relazione si crea tra la dimensione individuale delle protagoniste e il contesto collettivo del progetto?
«Nunzia, Tita, Nicole, Nina, Marzia e Marianna sono le protagoniste del nucleo fotografico da cui prende vita l’intero progetto. Insieme compongono un corpo collettivo, una coralità politica e poetica. Ognuna di loro porta con sé una traiettoria unica, una lotta personale, un posizionamento specifico — ma tutte, inevitabilmente, raccontano una condizione condivisa, una storia che supera il singolo per farsi voce plurale. L’attivismo di Marzia, ad esempio, ha contribuito alla storica sentenza con cui la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato lo Stato italiano, imponendo la bonifica urgente della Terra dei Fuochi. Nina e Nunzia, invece, giovanissime artiste, scelgono di non aderire alla narrazione dominante che vuole il Sud solo come luogo da cui fuggire. Lo abitano e lo rivendicano come spazio generativo».

Come è avvenuto l’incontro con le protagoniste del tuo progetto? Come si è sviluppato il rapporto con loro?
«Alcune di loro le conoscevo già personalmente, e quando nella mia mente ha preso forma l’identità delle Mangiatrici di Terra, è stato come riconoscerle: erano già lì, incarnavano perfettamente quella visione. Ma era fondamentale che si sentissero parte di questa narrazione, che la accogliessero con consapevolezza. In altri casi, l’incontro è nato attraverso un lavoro di ricerca e ascolto, grazie al confronto con collettivi di attiviste e realtà territoriali. Ogni relazione si è sviluppata in modo diverso, ma sempre con un approccio orizzontale, fatto di fiducia, alleanza e scambio».
Il progetto è visivamente e linguisticamente stratificato: fotografia, moda, scultura, suono. Come dialogano tra loro questi linguaggi?
«Nella mia pratica artistica l’uso di linguaggi differenti è sempre stato centrale: non come semplice somma di tecniche, ma come necessità espressiva. Ogni medium porta con sé una specificità sensibile che diviene portatore di senso nel processo concettuale. Il risultato è un racconto polifonico, in cui ogni strato contribuisce a dare profondità e complessità all’identità delle “Mangiatrici”».

Come si è sviluppata la collaborazione con Antonella Mirco, stilista e fondatrice di AENDÖR STUDIO, e con la realtà del progetto Alleanze Sonore?
«Con Antonella Mirco si è creata un’intesa immediata. Ho scelto di coinvolgerla perché incarna lo spirito profondo del progetto: è una donna che, dopo anni di ricerca e sperimentazione a Berlino, sceglie di tornare in Puglia per fondare AENDÖR STUDIO, un progetto sartoriale radicale che rifiuta le categorie binarie. Il nostro dialogo ha preso forma in Ferro Fragile, una scultura in ferro che rievoca il pannier seicentesco, nata da una riflessione condivisa sul corpo femminile e sulla sua storica riduzione a oggetto. Ma qui il corpo non è più passivo: gli aculei che lo punteggiano rendono visibile la tensione di un ribaltamento semantico. Il progetto Alleanze Sonore nasce, invece, dall’incontro tra la voce lirica di Anna Maria Loiacono e la sperimentazione elettronica di Carol Rollo, in arte Puta Caso. Mi interessava mettere in dialogo linguaggi e persone apparentemente inconciliabili. Partendo dalla Carmen di Bizet, primo femminicidio nella storia della lirica, la voce di Anna Maria viene destrutturata, campionata, trasformata. Non racconta più la morte, ma la sopravvivenza di Carmen. Grazie al lavoro sonoro di Puta Caso, la narrazione si frattura, il dolore diventa ritmo, la voce si fa corpo, memoria, resistenza».
Le Mangiatrici di Terra è “un progetto in divenire”. Hai già in mente come proseguirà?
«Assolutamente sì. Ho già individuato le prossime protagoniste e, per ora, posso anticiparvi solo le tematiche che affronteranno: parleremo di mafia e migranti, due argomenti che queste donne hanno vissuto in prima persona e che racconteranno attraverso le loro storie e il loro impegno civico».















