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L’intesa pittorica tra Guido Trentini e Angelo Zamboni agli inizi del ’900, a Verona
Mostre
Più sotto del Castel San Pietro, guardando l’altura che veglia su Verona sulla sinistra, e un po’ più sopra l’ultimo ordine di archi che incorniciano il Teatro Romano, spunta una casa giallo ocra, la cui vista placida sulle rovine dell’auditorium e sul fiume Adige ha per anni accompagnato Guido Trentini e Angelo Zamboni nei loro giorni di pittura, davanti alla tela e al paesaggio che si offriva ai loro occhi. Quello studio condiviso sull’ansa del fiume è stato per lungo tempo un crocevia di incontri: vi sono passati letterati, poeti, filosofi, in un clima di straordinaria vitalità culturale. Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, la cultura figurativa veronese si nutriva infatti di stimoli molteplici: da una parte Venezia, punto d’accesso privilegiato all’arte europea più contemporanea grazie alla Biennale e alle esposizioni di Ca’ Pesaro; dall’altra, il legame diretto con i centri nevralgici della Mitteleuropa, in particolare Vienna e Monaco di Baviera. In questo intreccio di influenze, la scena veronese si dimostra particolarmente ricettiva verso una pluralità di linguaggi: dalla spiritualità lirica del colore di Paul Gauguin alle sintesi formali della Scuola di Pont-Aven, dall’energia vibrante dei Fauves alle raffinate eleganze simboliste di Gustav Klimt.

Fino al 26 gennaio 2026, la mostra alla Galleria d’Arte Moderna Achille Forti Lo studio sul colle. Guido Trentini e Angelo Zamboni, a cura di Isabella Brezigar e Patrizia Nuzzo, indaga proprio quel decennio fecondo, aprendo il percorso con una sezione dal sapore intimo e domestico. Nature morte, interni silenziosi, presenze femminili immerse in una luce rarefatta: tra le opere, spicca un soave ma enigmatico ritratto di ragazza intenta a suonare un mandolino, e Le perle del lago di Trentini, dove si avvertono già i riflessi di un cromatismo cangiante che richiama le ricerche post-impressioniste. I toni freddi che modellano le figure femminili e la costruzione per piani paralleli suggeriscono un lessico pittorico già europeo, teso al superamento del naturalismo accademico e in dialogo con le avanguardie. Dall’interno domestico si passa, nella seconda sezione, allo sguardo che si apre verso l’esterno: vedute che inquadrano il paesaggio collinare veronese, reinterpretato con forme semplificate, quasi architettoniche. Le case si riducono a volumi essenziali, solidi netti e squadrati, mentre la pennellata si fa più libera, corposa, antinaturalistica. La solidità della composizione e l’autonomia del colore come valore espressivo rimandano a Cézanne, ma anche al desiderio condiviso da Trentini e Zamboni di allinearsi ai linguaggi più aggiornati dell’arte europea. Accanto ai paesaggi, numerosi ritratti: figure raccolte, spesso incastonate nel paesaggio scaligero, evocano la pittura di Felice Casorati, presente a Verona già dal 1911. L’influenza casoratiana si coglie nell’immobilità assorta delle figure, nella costruzione rigorosa dello spazio pittorico, nei toni smorzati e polverosi, così come in quell’atmosfera sospesa, misteriosa, che è cifra distintiva di una pittura simbolista intrisa di silenzio e di enigma.

La terza e ultima sezione amplia lo sguardo con una riflessione sul simbolismo e sulla secessione viennese. Per la prima volta vengono riunite opere inedite, carte preparatorie, lettere, materiali d’archivio e testimonianze che restituiscono la rete di relazioni intellettuali che ha animato quella stagione irripetibile dell’arte veronese. Fulcro della sezione è il ciclo de La pianta rossa di Trentini, presentato qui in cinque versioni: un motivo quasi ossessivo che l’artista sviluppa in una serie di variazioni sul tema. L’elemento vegetale, isolato e frontalmente composto, si carica di un’aura misterica: una presenza quasi totemica, al tempo stesso reale e simbolica, che richiama le sintesi formali della Secessione e certe soluzioni decorative dell’Art Nouveau. Nella stessa sezione si trovano anche le emblematiche Colline veronesi di Zamboni: un paesaggio densamente materico, costruito per larghe campiture e improvvise accensioni cromatiche. Il colore si fa denso, a tratti violento, steso per chiazze, con accenti antinaturalistici che ricordano le visioni interiorizzate di Emil Nolde o i paesaggi svizzeri di Ernst Ludwig Kirchner.
Insomma, da quella casa sul colle (ancora visibile tra gli alberi) non si contemplava soltanto il paesaggio veronese: era una finestra aperta sul mondo, divenuta il simbolo di un’amicizia artistica e di una rara complicità intellettuale. Un rifugio creativo, un laboratorio di visioni da cui il reale veniva guardato, meditato, e infine, sulla tela, impresso.















