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Urs Fischer porta a Basilea la sua ironia amara. L’intervista
Arte contemporanea
«Sono qui, cosa devo fare?» ha chiesto appena sbarcato a Basilea da Los Angeles (dove vive) con uno zainetto sulle spalle e sua figlia con sé. È arrivato per due nuove installazioni nella Marktplatz e una piccola retrospettiva in un antico ossario, il Totehüsli, che Globus (che è come la nostra Rinascente) ha restaurato per delle mostre temporanee.

È il terzo progetto del Public Art Project, di Globus in collaborazione con la Fondation Beyeler, che da tre anni invita diversi artisti a creare nuove opere d’arte site-specific legati ai lavori in corso. Dopo i progetti realizzati da Claudia Comte e Julian Charrière, fino alla fine di luglio vedremo il lavoro dell’artista svizzero che ha composto sul tabellone della facciata in costruzione sulla piazza. Si tratta dell’immagine di un fotogramma di una scena di un film anni ‘40 attraversato da una fetta di pancetta. Eternity (2023) è uno dei suoi collage con cui indaga la cultura popolare usando materiali e oggetti di uso comune. Non a caso a breve distanza dal luogo dei lavori ha costruito una sorta di fontana con una scultura in bronzo, che raffigura uno scheletro sdraiato su una sedia (Invisible Mother, 2015) dove l’acqua spruzza da un tubo da giardino. Sperimentando con il collage, il disegno, la scultura e le installazioni, Urs Fischer mostra una “leggerezza calviniana” (Italo Calvino) rispetto al suo ruolo di artista e al suo lavoro nel significato di più preciso di elevarsi rispetto alla pesantezza del reale realizzandone una descrizione con un alto grado d’astrazione, di gioco e ironia.

Una fetta di pancetta che attraversa un fotogramma di un film degli anni ‘40. Sta ironizzando mettendo a confronto uno storyboard e una fetta di bacon?
«Era lì, tra le mie cose. Ma non è importante. A tutti piacciono gli oggetti; a tutti piacciono oggetti diversi. Si tratta di decidere quali vuoi mettere nella tua arte. Anche se in realtà il salume mi ricorda profilo di una valle svizzera con il profilo all’infinito di rilievi montuosi».
Invece nella fontana c’è uno dei suoi topos: lo scheletro. Lo ritroviamo anche in altre opere all’ossario Totehüsli. Spesso che fuma, dorme, salta.
«In realtà è il modo più semplice per rappresentare un essere umano. Tutti noi siamo così».
Quello che “ci accoglie” al Totehüsli sembra voler fuggire, scavalcare degli ostacoli che sono degli scatoloni… Immagino che non ignori il significato simbolico…
«Certo. Ma per me è facile usarlo per rappresentare noi umani è come un disegno fatto con una sola linea. Come un tratto veloce generato da un solo gesto. In realtà gli scatoloni sono uno mezzo che ho trovato tra le cose che avevo in studio per farlo stare in piedi».

Però al centro della sua arte c’è sempre la vita, il suo scorrere e l’ineluttabilità della morte, che si riflette anche nell’uso dei suoi materiali e il loro decadimento. Non a caso nella piccola retrospettiva da Globus c’è la sua copia realizzato in cera. E di qualche anno fa. Lo rifarebbe oggi?
«Sì, anche per me vale attraversare l’esistenza. Per questo esiste la mia copia in cera. Anche se guardandolo bene ci sono delle cose che cambierei. Le mani le farei meglio… (Commenta girando intorno alla scultura, ndr)».
Sfida la nozione classica di scultura come forma duratura, proponendo invece un’arte che rispecchia l’esistenza mutevole e finita.
«Sì, ma seppur il mio sia spesso un modo giocoso e disarmante, non è mai privo di un profondo senso di inquietudine».















