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Come abitare la Terra del futuro, con intelligenza: la mostra a Palazzo Diedo
Progetti e iniziative
Su, al secondo piano di Palazzo Diedo, a Venezia, restaurato con cura filologica dall’architetto Silvio Fassi dopo anni di abbandono, pendono lunari seicento gocce di vetro soffiato che compongono Omen, l’intervento permanente di Urs Fischer. Soffiate a Murano e rivestite d’argento, le gocce sospese riflettono affreschi, infissi e stucchi settecenteschi, frammentando lo spazio e rendendo ogni passo un’esperienza ottica, come se il visitatore dovesse attraversare un microclima artificiale, in cui le condizioni atmosferiche coincidono con quelle della percezione. È una logica che riguarda in verità tutto Palazzo Diedo e che trova oggi una delle sue formulazioni più potenti nella mostra The Next Earth: Computation, Crisis, Cosmology, evento collaterale della 19a Biennale Architettura di Venezia, aperto dal 10 maggio fino al 23 novembre 2025.
Situato nel sestiere di Cannaregio, affacciato sul Rio della Maddalena, Palazzo Diedo è un edificio del primo Settecento voluto dalla famiglia Diedo e progettato da Andrea Tirali. È anche, oggi, un centro di produzione culturale con respiro internazionale. Sede di Berggruen Arts & Culture, branca veneziana del Berggruen Institute fondato da Nicolas Berggruen, il palazzo ha riaperto le sue porte nel 2024 con la mostra Janus, affidata alla curatela di Mario Codognato e Adriana Rispoli. 11 artisti di fama internazionale — da Carsten Höller a Hiroshi Sugimoto, da AYA Takano a Lee Ufan — sono stati invitati a intervenire sul palazzo con opere permanenti site-specific, destinate a dialogare con l’identità architettonica, decorativa e artigianale dell’edificio: vetro, marmorino, affresco, terrazzo, tessuti. Ne consegue un organismo trasformativo, situato nel tempo, e insieme ostile a esso.

Da cui The Next Earth, esposizione temporanea che unisce le ricerche di due istituzioni radicalmente diverse per genealogia ma sorprendentemente convergenti negli obiettivi: Antikythera, think tank filosofico-tecnologico fondato da Benjamin H. Bratton e incubato al Berggruen Institute di Los Angeles, e il Dipartimento di Architettura del MIT, tra i più prestigiosi centri di ricerca mondiali nel campo dell’ambiente costruito. La mostra si sviluppa su due livelli contigui del palazzo, secondo una curatela affidata allo stesso Bratton, insieme a Nicholas de Monchaux e Ana Miljacki. Il progetto si presenta, già nella sua architettura espositiva, come una doppia costellazione: da un lato, una riflessione filosofica sulla computazione planetaria; dall’altro, un atlante concreto di modelli costruttivi alternativi.

La sezione curata da Antikythera – The Noocene: Computation and Cosmology from Antikythera to AI – si esalta nel video-Monolite sul fondo del primo piano. Il flusso persistente di informazioni raccoglie cortometraggi, animazioni e contributi teorici attorno a una questione centrale: che cos’è l’intelligenza e quale rapporto lega la sua evoluzione ai sistemi della Terra? Il termine “Noocene” – coniato da Bratton e ispirato a Gregory Bateson e Teilhard de Chardin – indica l’epoca in cui l’intelligenza complessa (umana, artificiale, bioinformatica) ha trasformato la Terra in un artefatto cognitivo. Eppure proprio in questo momento storico, quando sembrerebbe in grado di conoscere le proprie condizioni evolutive, l’intelligenza si trova a dover fare i conti con la propria vulnerabilità. La mostra non offre risposte univoche. Propone piuttosto uno spazio di interrogazione: la computazione non è un dato ma un campo di possibilità. I materiali selezionati – alcuni provenienti dalla storia dell’astronomia e della filosofia moderna, altri da scenari speculativi sull’intelligenza artificiale e la vita artificiale – costruiscono un paesaggio cognitivo che ha la forma, più che di un percorso, di una mappa mentale.

Al piano superiore, il MIT Architecture presenta Climate Work: Un/Worlding the Planet, una raccolta di 40 progetti in corso, ideati da docenti e ricercatori del dipartimento. Qui il tono si fa più operativo, ma non meno immaginativo. Il punto di partenza è un dato di fatto: il settore delle costruzioni – dalla fabbricazione dei materiali alla gestione degli edifici – rappresenta circa il 40% delle emissioni globali di gas serra. Che ruolo può avere, allora, l’architettura, non solo nel mitigare l’impatto ambientale ma nel riconfigurare la relazione tra costruzione e sistema planetario? Le risposte offerte dal MIT sono molteplici: dallo studio delle tecniche costruttive vernacolari alle tecnologie digitali più avanzate, dalla fabbricazione di materiali sostenibili alla modellazione predittiva dei flussi climatici. Ogni edificio è visione del mondo, azione sul mondo.
Tra i due piani si apre uno spazio dialettico che è anche uno spazio critico: The Next Earth non è una mostra sulla tecnologia né una mostra di architettura ma una mostra sulla possibilità di pensare la Terra come oggetto non solo di un’azione tecnico-tecnologica ma anche una forma di conoscenza. Così, Palazzo Diedo si trasfigura in una machine à lire, macchina da lettura: uno spazio dove l’arte, l’architettura e la filosofia non si co-implicano nel discorso speculativo. La struttura del palazzo – con i suoi affreschi mitologici, le sue stanze barocche, i suoi affacci sulle acque – diviene parte integrante del discorso espositivo, ne espande i significati, li rifrange, li mette in discussione.

In questo senso, The Next Earth non si limita a commentare i temi della Biennale Architettura 2025 – Intelligens. Natural. Artificial. Collective curata da Carlo Ratti – ma li rilancia in forma di ipotesi: è possibile una convergenza tra le intelligenze artificiali, quelle biologiche e quelle collettive, a condizione che l’architettura smetta di essere una disciplina autoreferenziale per diventare un linguaggio sistemico, capace di descrivere, intervenire, trasformare.
Non senza ragione Bratton definisce l’architettura un mezzo computazionale – software inscritto nello spazio, dove ogni elemento ha valore di calcolo, di selezione, di codice. È una prospettiva affascinante e per certi versi vertiginosa, che trova nel contesto veneziano un’eco particolarmente significativa: Venezia è infatti, per eccellenza, città-infrastruttura, macchina fragile di adattamento ambientale, monumento alla negoziazione permanente con l’acqua e con il tempo.

Il progetto The Next Earth è accompagnato da un ricco programma pubblico: il 9 maggio si è tenuta la serata inaugurale, con interventi e installazioni site-specific; il 10 maggio un simposio ha raccolto filosofi, artisti, teorici dei media e scienziati – tra cui Chen Qiufan, Thomas Moynihan, Gašper Beguš, Metahaven, Blaise Agüera y Arcas – in un confronto serrato sulle forme della conoscenza planetaria. In questa occasione è stato anche presentato il volume Accept All Cookies, pubblicato da Antikythera in collaborazione con Berggruen Press, che raccoglie molti dei testi fondativi del progetto. Il volume è ora in vendita al rinnovato bookshop, la cui selezione prevede anch’essa un itinerario tra scienza delle arti, computazione e filosofia.
Intervistato dal Der Spiegel alle soglie dell’allunaggio – violenza tecnica e insieme corruzione del rapporto tra Uomo e Natura – il filosofo Martin Heidegger sostenne che solo un Dio, adesso, avrebbe potuto salvarci. Chi? Gli esseri umani? Tutti gli enti della terra? Soltanto òi àristoi, i migliori, i graziati? Tale meditazione – di cui si può leggere una pagina a cominciamento del Palazzo – sta a fondamento di The Next Earth. Ci si muove in un ambiente cognitivo, un ecosistema in cui la densità teorica si traduce in esperienze sensoriali, e viceversa. In questo, le esposizioni – dal virtuale all’(in)tangibile dei diorami architettonici – reificano l’intervallo, danno corpo allo spazio instabile tra figura e sfondo, tra ambiente e gesto, tra l’oggetto osservato e le griglie cognitive che ne rendono possibile l’apparizione. Un auspicio.