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Il tessuto è tutto ciò che resta: intervista all’artista Thomas De Falco
Arte contemporanea
Ripetere ossessivamente un gesto è figlio di un atteggiamento che mi piace pensare, in un certo modo, sovversivo. In un mondo che grida, Thomas De Falco sussurra avvolto da dolci intrecci di tessuto che si fanno carne. Costruiscono una visione su nuovi universi effimeri ma necessari: le sue performance e installazioni sono respiri, sussulti, che si consumano in pochi attimi restando poi aperte come ferite languide che faticano a rimarginarsi. Ogni lavoro è parte di un atto che costruisce una sorta di tragedia costante e infinita: si tratta di un’epifania continua, un tempo sospeso in cui i corpi si legano alla terra, alla materia, a qualcosa che ci intima dal profondo della nostra torbida psiche. Un bisogno viscerale, umano, troppo umano, figlio di una pratica che nasce da un’intimità minuziosa.

Una ritualità che parte dal gesto: nel cucire, nell’avvolgere, nell’intrecciare, De Falco costruisce un linguaggio che unisce l’organico e l’inorganico. Sembra restituire al corpo la sacralità del frammento, del dettaglio, dell’imperfetto. Il tessuto non è più semplice materia, ma costruisce metafore poiché ciò che tiene insieme, ciò che avvolge, identifica ciò che resta. Il tessuto è legame e legante e si muove sul confine spericolato tra presenza e memoria.
La capacità di De Falco consiste nel rendere visibile questa tensione insopportabile tra resistenza e abbandono, tra controllo e catarsi. Performer radicati fluttuano tra le dimensioni del tempo e dello spazio, inesorabilmente destinati a sparire. Ciò che davvero resta – sculture tessili, gli oggetti, le immagini – è ciò che sopravvive come traccia di un passaggio, come eco di una voce.

Thomas De Falco abita lo stato d’eccezione dell’arte: quello spazio liminale in cui tutto è possibile perché vivono fragili. La sua è una poetica del resto, che segue l’universale a partire da situazioni che crescono organicamente: l’artista impone una forma che però si declina nel contesto modificandosi e mutando allo stesso tempo la sua idea originaria. Come un dinosauro di gomma bendato d’oro, come un canto che attraversa le fronde, come un bambino che sogna mentre viene cullato da braccia diverse…è lì che la terra continua a cantare.

Vorrei iniziare l’intervista chiedendoti quale è stato il percorso che ti ha portato alla performance e se puoi restituire ai lettori una sorta di micro-narrazione della stessa.
«La performance e installazione nasce per dare vita alla materia tessile. Utilizzo gli arazzi e i wrapping per unire e intrecciare i corpi dei performer creando un collegamento tra vita e materia, una sorta di natura morta, come fosse un nesso inscindibile che è anche flusso di energia. Se mi chiedi nello specifico l’origine del mio linguaggio, sono sempre stato appassionato della performance e alla danza contemporanea. Pina Bausch e Trisha Brown sono forse i miei riferimenti più importanti. Trovo che nella performance e nell’installazione che ho realizzato nel Parco Internazionale di Scultura di Banca Ifis a Villa Fürstenberg, The Earth Still Sings, ho unito sia l’immaginario da cui provengo che tutta la mia ricerca precedente per costruire una narrazione che annullasse l’idea di differenza per favorire una comunione poetica».

Come parte del Public Program di questa edizione del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia, la tua opera si completa e si raccorda al tema dello stesso: un equilibrio, spesso complesso e difficile, tra l’immobilità e la fermezza della terra e l’eterno mutare inarrestabile della forma dell’acqua. In un certo senso, è come se con il tuo intervento avessi cercato di catturare questa forma per rappresentarla – plasticamente e metaforicamente. Che cosa vuole essere la tua rappresentazione? Come si inserisce in questo contesto?
«Quando sono stato chiamato da Clara Tosi Pamphili e Guendalina Salimei ero a New York e stavo realizzando delle nuove sculture tessili. Per la prima volta, un animale (un volatile). La colomba dal titolo Gold che oggi si trova nel Padiglione Italia evidenzia i temi a cui più sono legato: la vita – una sorta di vitalismo -, che pervade le mie performance, le mie sculture e le mie installazioni quasi fossero alberi, e le problematiche sociali che stiamo vivendo oggi nel mondo e a cui cerco di dare una prospettiva e un’anima ben precise. In un certo modo, dare un senso ed una risposta che sia poetica eppure comprensibile e assoluta».

Maschile e femminile si intrecciano costruendo una narrazione quasi ibrida in cui i confini, pur restando visibili e determinati, sembrano assumere la stessa fluidità dell’acqua e muoversi tra le forme delle tue sculture. Se penso a No man is an island di Thomas Merton, mi sembra di percepire una urgenza quasi catartica ma che non può prescindere dalla cooperazione e dall’unità nella differenza. Allo stesso modo The Earth Still Sings è un messaggio di speranza ma anche rivelatorio: anche il nostro seguito sulla terra, dopotutto, è piuttosto irrilevante. Ciò che è importante è quello che lasciamo, quello che rimane, ossia tutto il resto. Mi piacerebbe riuscire a far percepire la tua poetica anche in questi termini, nell’analisi del resto. Qualcosa di effimero ma esattamente quello stato d’eccezione (sul modello di Agamben) in cui si riversa e sopravvive la riflessione delle arti. Quale è la forma di questa tua urgenza? Che cos’è la tua eccezione, il tuo resto?
«Nella mia ricerca da anni studio la natura e il suo movimento. All’inizio, quando cucivo in maniera ossessiva foglie nei miei quaderni, mi pareva come se stessi preparando un rito sciamanico… una sorta di rituale per l’unione tra corpi e materia più o meno organica. Volevo osservarne l’evoluzione, il mutamento delle forme. Ritrovo questo atteggiamento ancora oggi nell’osservare le danze e le configurazioni che i corpi assumono nelle mie performance e sento che la forma della mia urgenza risieda proprio nell’essere rappresentativo di un mondo fuori dal mondo, trasognato, quasi idilliaco ma sicuramente pacifico e lontano da ogni conflitto perché già risolto, già sorpassato. Quella che vedo come quello stato d’eccezione in cui mi inserisco è esattamente questo frangente: la performance ed installazione nel campo da tennis del Parco Internazionale di Scultura di Banca Ifis è catarsi e celebrazione collettiva, possiede la necessità di esistere per poco, di essere effimera. Quello che resta – le sculture – non possono più essere attivate ma rappresentano lo stesso identico segno che è passato, che non esiste più».

La performance di Villa Fürstenberg riprende in parte anche la tua personale che si è chiusa lo scorso 9 marzo al Museo d’Arte Contemporanea di Cavalese, curata da Elsa Barbieri. In entrambe le occasioni, ma credo più in generale nella tua poetica, c’è una certa interpretazione che definirei estensiva – anziché inclusiva, che oramai è un termine assolutamente abusato e quasi ideologizzato – circa il femminile. La tua è una poetica che abbraccia l’unicità di ciascun individuo attraverso un medium così delicato e così dolce come quello del tessuto. Ovviamente ricorda molto il testo di Rozsika Parker The subversive stitch (cfr. Il ricamo sovversivo) senza cui forse l’intera riflessione sul tessile oggi non potrebbe quasi esistere (collocata, ovviamente, nel nostro presente). Si può – e come si può – inserire la riflessione di Parker nel tuo lavoro? Che cos’è per te il tessuto?
«I performer sono collegati, legati ed intrappolati dalle braccia ai piedi da grandi rami d’albero di magnolia e perciò completamente incapaci di muoversi se non con movimenti rozzi e spesso impercettibili. Le sculture di tessuto innestate ai performer riempiono gli spazi del campo a cui si aggiunge un bambino che viene cullato in maniera alternata dalle braccia delle due donne e dell’uomo come se fosse un gioco. Vero e proprio Peter Pan, il bambino rappresenta l’unione: come il grande fiume, quel fiume che collega i piccoli e grandi paesi nel mondo. Il tessuto non è solo legame ma anche legante; non è solo cucitura ma anche struttura e sostanza. Le sculture creano legami che sopravvivono, sono radici – o vene – in cui fluisce linfa vitale».

Quando ci siamo parlati, mi hai raccontato del parallelismo davvero poetico, quasi una sorta di traccia che emerge potentemente nel tuo lavoro, sulla figura del bambino. Come nel grande arazzo in mostra a Cavalese, ritorna spesso nelle tue opere la forma e la figura di un dinosauro. Retaggio quasi ancestrale, sicuramente simbolico, della forza eterna del sogno di un individuo che deve sempre e costantemente sentirsi bambino per stupirsi, meravigliarsi, e scoprire. Come accenneresti a questo legame così complesso e, allo stesso modo, completo?
«Nella mia personale al Museo d’Arte Contemporanea di Cavalese, tra le varie opere, c’era un arazzo che rappresentava un dinosauro, mentre qui ho inserito un dinosauro in gomma dalla testa fasciata di colore rosso e oro. Nella perfomance di Villa Fürstenberg il dinosauro era il bambino, quello stesso bambino che rappresenta la purezza e la pace, ma anche il disagio. Una sorta di immagine redenta di quello che è il nostro tempo martoriato dalla guerra, dalla distruzione e dalla disperazione».

L’anno scorso ho assistito ad un’altra tua performance, nello Studio Legale Iannaccone, in cui entrava in gioco un dettaglio ulteriore: i corpi di sette performer erano connessi da un intricato sistema di forme quasi organiche. Una potentissima metafora legata anche a questo nostro mondo eternamente interconnesso e in cui annaspiamo nel cercare di dipanare quella matassa così intricata. Nella tua performance al Parco Internazionale di Scultura Banca Ifis hai espressamente voluto distruggere le differenze, che oggi appaiono sempre più prepotenti. “Una donna sostenuta dal mondo e che lo sostiene” come mi hai dichiarato; unione e divisione, miscele eterogenee e separazioni assolute (e assolutistiche)… dopotutto, un ritratto di questo nostro tempo bistrattato e distrutto. Una domanda che può sembrare criptica: quale è lo stato delle cose che tu, come artista, riesci e puoi vedere?
«La donna è rappresentata come se fosse una polena. Nella mano sinistra tiene una colomba (eco della mia scultura nel Padiglione Italia) mentre nella mano destra sorregge una scultura tessile di vari colori che rappresenta il mondo. Oltretutto, indossava un abito scultoreo di 116 metri cucito alla rete del campo da tennis come se fosse una tenda, una vera propria casa dove potersi rifugiare. Lo stesso bambino, come ti dicevo prima protagonista di un vero e proprio gioco, si nascondeva per creare delle ombre, quasi fossero un mare mosso. Le due donne – la performer e la soprano Silvia Colombini – cantavano in maniera alternata, intonando dei canti di temi altalenanti tra la gioia e la sofferenza, tra il romantico ed il minimale, che avevo scritto e studiato appositamente insieme alla soprano. Le mie performance e installazioni identificano un momento, nello spazio e nel tempo che è unico e non replicabile; che risente anche dello stesso ambiente in cui viene inserito. La performance e l’installazione, allo stesso modo, celebrano questa sfrontata unicità e segnano esse stesse lo stato delle cose, identificando il luogo e identificandosi a loro volta. Sono le situazioni a modificare l’ambiente, seppur riferendosi a cosa c’è, oggi, da osservare!».

Riprendendo quest’ultima parte della tua risposta, è evidente – oltre che scontato – il ruolo del suono e lo studio delle sue proprietà ambientali. Quale è stato l’apporto del suono e quali sono quei piccoli legami che lo proiettano anche in quello per cui stai lavorando?
«Ho sempre accompagnato le performance con canti e strumenti musicali, di vari generi come la techno o la musica elettronica. Da Giuseppe Iannaccone, ad esempio, ho coinvolto una tecnica e studiosa del suono rock per dare voce alla materia tessile, come se le sculture parlassero, prendessero vita e vivessero in mezzo a noi. Il suono, dunque, non è solo fondamentale, ma è parte stessa dell’opera. In questo periodo sto lavorando a nuovi progetti in America e in Europa anche per approfondire lo studio del suono. Il 28 agosto sono stato invitato dalla direttrice del Kunstverein am Rosa Luxemburg Platz di Berlino, Susanne Prinz, a realizzare una nuova perfomance e installazione curata da Chiara Valci Mazzara».














