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Tutta l’opera di Douglas Gordon al MAXXI: un labirinto di immagini, suoni e tempo sospeso
Mostre
La superficie della galleria 5 invasa dalla luce rossa di un cumulo di neon introduce alla grande installazione dell’artista scozzese Douglas Gordon. Il MAXXI di Roma espone, fino al 23 novembre 2025, Pretty much every film and video work from about 1992 until now’ish, un celebre work in progress che ha l’ambizione di raccogliere quasi tutti lavori realizzati dall’artista dal 1992: un’opera aperta e in divenire, che si riconfigura nel tempo e che dialoga con il tempo per sua stessa natura. I neon che emanano la luce rossa sono la traduzione in italiano del titolo dell’installazione ma, emancipate da ogni funzione didascalica, le parole sono disposte in modo caotico e illeggibile.
L’opera risale al 1997, quando Douglas Gordon, su invito della Foksal Gallery di Varsavia, presentò tutti i lavori video realizzati fino a quel momento. La mostra, intitolata Pretty much every film and video work from about 1992 until now, to be seen on monitors, some with headphones, others run silently and all simultaneously (ovvero: “Più o meno tutti i film e i video realizzati dal 1992 a oggi, da vedere su monitor, alcuni con cuffie, altri in silenzio e tutti simultaneamente”), si presentò come un archivio sintetico di tutto il suo lavoro filmico, una sorta di fugace messa a fuoco sulla sua pratica, forse un passo necessario a breve distanza dal prestigioso riconoscimento del Turner Prize (1996).

Lo spazio vuoto che si apre fra i neon e l’installazione risuona delle voci, dei suoni e dei silenzi che provengono dagli oltre cento monitor dell’istallazione. Si oltrepassa il taglio sul pavimento della galleria da cui è possibile vedere sotto i propri piedi i piani inferiori del MAXXI. È una sorta di chiave di lettura dell’intervento di Gordon: un grande taglio nello spazio come di tagli e di assemblaggi è costituita tutta la sua produzione. Intercettare il taglio in cui l’immagine movimento possa essere ribaltata, reiterata, sdoppiata, invertita, individuare il punto fin dove possa spingersi la tensione elastica di un video, sono le sue ossessioni più ricorrenti.

La pratica artistica di Douglas Gordon è un corpo a corpo col tempo che si fa scultura in un duplice ready-made di immagini e di oggetti, personale e collettivo, in cui scene iconiche di film e filmati autoriali si incontrano in una struttura spaziale ma anche del pensiero. Ci si rende conto, allora, di trovarsi dentro a un labirinto senza mura. Sopraffatti dalle interferenze reciproche fra i monitor si scoprono poco alla volta corrispondenze segrete: mani che mimano atti sessuali accanto a sipari chiusi, occhi che riflettono scritte al neon accanto all’occhio malinconico dell’elefante addestrato per mimare la sua stessa morte (tratto dall’opera Play Dead Real Time, del 2003), mani che indossano pesanti guanti di gomma accanto a mani che provano a ricoprirsi uniformemente di un impasto nero, animali che si aggirano in spazi vuoti accanto a mosche immobili, perfettamente centrate nello screen biancastro di uno smartphone (tratto dall’opera Film noir del 1995), corpi costretti all’immobilità da altri corpi senza nome (tratto da A Divided self I and II, del 1996). È un montaggio senza fine affidato alle possibilità combinatorie del visitatore. Sta a lui mettere insieme e interrogare la miriade di frammenti minimi, di ingrandimenti orfani di un’ambientazione spaziale, di dettagli incongruenti mentre gli specchi laterali alla grande installazione ostacolano la fuga dello sguardo e inducono a ricominciare.
Gordon Douglas elabora così un autoritratto in cui ogni mania e ogni desiderio, ricorrente o isolato, cade nello spazio simbolico di un montaggio per accostamenti che gli consente di mettere le mani nel tempo del cinema per disarticolarlo. Vengono in mente le considerazioni di Deleuze sull’immagine-movimento, sul montaggio, che egli riteneva l’atto principale del cinema, sulla morte stessa che Pasolini descrive come il supremo e fulmineo montaggio della vita.
In questo autoritratto, tuttavia, l’identità di Gordon si impone con tutti i dubbi che vengono dall’aver fatto coincidere la superficie di uno specchio con la superficie di mille schermi sovrapposti. Il suo Selfportrait as Kurt Cobain, as Andy Warhol, as Myra Hindley, as Marilyn Monroe, del 1996, ci aveva già indicato la strada di un’identificazione multipla in cui riscontrare le nostre scissioni.















