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Si apre con la doppia personale di Georg Baselitz e Lucio Fontana la sede milanese della Galleria Thaddaeus Ropac
Mostre
di Luca Maffeo
L’accostamento di due artisti storici per la mostra d’apertura della sede Milanese della Galleria Thaddaeus Ropac è tutt’altro che réclam. Non ci poteva essere inizio migliore si dirà, posto che i due maestri, benché non si siano mai incontrati, si pongono per contesti differenti all’insegna del cambiamento.
Da un lato Georg Baselitz (Kamenz, 1938), neoespressionista della Germania divisa che alla fine degli anni Sessanta diventa noto grazie ai suoi dipintiti dai soggetti capovolti; e dall’altro Lucio Fontana (Rosario di Santa Fé, 1899 – Comabbio, 1968), argentino di nascita e di formazione milanese, che con i “tagli” (o i “buchi”) sulla tela aveva trovato l’oltre della pittura. Fatto sta che la mostra L’Aurora viene, allestita nella sede di Piazza Belgioioso 2, esprime l’affezione del pittore tedesco per il maestro più anziano. Per quello spirito pacatamente rivoluzionario di Fontana verso il «superamento della pittura, della scultura, della poesia e della musica» come descritto nel Manifesto Blanco del 1946.

E pensare che proprio a Milano qualcuno diceva: «Fontana prima el faseia i büs, adesso el fa i taj e adesso el rump i ball», aveva raccontato l’artista a Carla Lonzi (1967). E invece, continuava, non ci si accorgeva che «passa l’infinito di lì, passa la luce, non c’è bisogno di dipingere». Ed è lì che sorge qualcosa. Nel fondo che si fa superficie e nella superficie che lascia spazio alla profondità che da essa emerge. Baselitz lo ha colto e fatto suo, fuori da ogni logica interpretativa e rimanendo se stesso. Nel parallelismo emerge, quindi, il gusto, e tra splendide sculture dette barocche come il Guerriero (realizzate tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta), i Concetti Spaziali (Concetto Spaziale, Forma, 1957), le Attese e La fine di Dio (1963-64) annunciata da Fontana, Baselitz inverte la consuetudine pittorica per indicare un rinnovato rapporto tra sfondo e figura. Nel capovolgimento, ha scritto Flavia Frigeri, «fa prevalere l’oggetto della pittura sul soggetto dipinto».

Aurora viene (2015), pertanto, quando le forme di gambe sottosopra tendono a un moto centrifugo che diverge dal centro scurissimo della tela verso i suoi estremi. Nella rispondenza, invece, del colore rosa del La fine di Dio (fine della figurazione, accettazione e rinvenimento del nulla generativo) si accosta la grande tela Rosa Riposa (2019) di Baselitz. Affascinante è vedere come il pittore ci abbia camminato sopra, con le impronte che diventano parte di quel tumulto che sembra dipinto di getto e le due figure, sempre ribaltate, che si confondono in esso. E poi Arriva: La scuola di Lucio (2019), giusto per citare un riferimento diretto, dal fondo chiarissimo, con un altro personaggio a testa in giù dipinto nei toni del grigio. Sottosopra, secondo una sovversione che non volge alla negazione, ma che porta la ricerca e la sperimentazione sulla soglia di qualcosa che si trova, che non vediamo e che si può vedere. Oscurità, emersione, il nero profondo come le tonalità più chiare.
La pittura di Baselitz incontra in Fontana la poetica del vuoto. Quella strana e discreta posizione artistica che, pur agendo in una dinamica creativa attiva, indugia e si mette in attesa: «Voglio un’apparizione», dice Baselitz, «qualcosa che risale dalle profondità». Quasi a richiamo implicito e allo stesso tempo consapevole del niente a cui Fontana ci ha condotti visivamente. Quel niente che, amava dire, «non è un niente di distruzione, ma un niente di creazione, capisci?».















