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Il mondo in equilibrio precario: il racconto della Biennale di Istanbul
Arte contemporanea
Considerata una delle tappe principali del calendario artistico in Turchia e nella regione, la Biennale di Istanbul è in corso fino al 23 novembre 2025, con la sua 18ª edizione con il titolo The Three-Legged Cat, (Il gatto a tre zampe). Curata dall’artista libanese Christine Tohmé, la mostra riunisce 47 artisti in otto sedi distribuite nei quartieri di Beyoğlu e Karaköy, con ingresso gratuito. La curatela di Tohmé ruota attorno all’autoconservazione e alla costruzione di futuri possibili, con opere che dialogano su temi che vanno dal trauma collettivo all’appropriazione culturale e alle tensioni geopolitiche. «In molti di questi lavori vediamo la creazione di mondi strani, collocati prima e dopo l’apocalisse», ha dichiarato Hatice Irem Yaman, tra gli organizzatori.

Poche città possono offrire un contesto così carico di storia come Istanbul. Camminare lungo Istiklal Avenue, nel cuore di Beyoğlu, significa attraversare un turbine di stimoli: gatti che si aggirano sui marciapiedi, il fumo delle castagne arrostite, pasticcerie colme di baklava e gabbiani che stridono dal Bosforo. Città millenaria, un tempo Bisanzio e Costantinopoli, oggi pulsa come una polis in cui tutto accade contemporaneamente. Negli ultimi anni, oltre 200 edifici storici sono stati restaurati e trasformati in spazi culturali, e questa vitalità permea anche la biennale. Le otto sedi scelte – dall’ex Scuola Greca di Galata al Giardino dell’ex Orfanotrofio Francese – si trovano tutte a pochi passi l’una dall’altra e fanno parte del tessuto urbano di Beyoğlu e Karaköy. Una scelta non casuale: la biennale si inserisce in spazi intrisi di storia, reinventati come piattaforme per l’arte contemporanea.

Tra le opere più discusse spicca My Body is a Temple of Gloom di Jasleen Kaur, che mette in questione la mercificazione delle tradizioni spirituali come yoga e meditazione all’interno dell’industria del benessere. L’installazione dell’artista scozzese, vincitrice del Turner Prize nel 2024, combina una grande carta da parati con l’immagine del tempio di Trimbakeshwar in India, video di un’insegnante di kundalini e oggetti come lampade di cristallo e pezzi di legno di ‘palo santo’, creando un’atmosfera inquietante in una sala quasi completamente buia. «Kaur critica il modo in cui trasformiamo pratiche ancestrali in prodotti di consumo globale, svuotandole di significato», ha spiegato Yaman. L’artista statunitense Ian Davis presenta una serie di minuziosi dipinti che raffigurano paesaggi industriali e disastri naturali, dove piccoli gruppi di figure umane appaiono uniformate e quasi insignificanti di fronte a gigantesche infrastrutture. L’effetto è perturbante: ordine e precisione convivono con un’atmosfera minacciosa. «Cerca quella sensazione del sinistro, di una temporalità sospesa prima e dopo una catastrofe».

Alla Cone Factory, l’artista catalana Claudia Pagès Rabal sorprende i visitatori con Five Defense Towers, un’installazione multimediale che combina proiezioni sul soffitto, coreografie e fotografie illuminate di antiche torri medievali della Catalogna. L’opera intreccia episodi storici con riflessioni contemporanee su confini e nazionalismi, tracciando un parallelo tra quelle strutture difensive e le attuali forme di esclusione territoriale. Uno dei momenti più toccanti è nell’opera Diaries from Gaza (2024) del palestinese Sohail Salem, artista e professore all’Università Al-Aqsa. Si tratta di disegni realizzati su quaderni scolastici durante il suo sfollamento nel pieno dell’offensiva contro la Palestina. Con tratti rapidi e strappati, le pagine compongono una testimonianza intima e politica che, più che arte, funziona come archivio dell’ineffabile. Alcuni quaderni sono persino stati fatti uscire clandestinamente da Gaza, sottolineando la dimensione di resistenza insita nell’opera.

Infine, l’artista bosniaca Selma Selman ha inaugurato il programma pubblico con Motherboards (2025), una performance in cui, insieme alla sua famiglia, smonta rifiuti elettronici per estrarre l’oro dalle schede madri dei computer. Il risultato è una scultura a forma di cucchiaio placcata in oro, presentata accanto ai resti frantumati di oltre un centinaio di dispositivi. Una potente metafora sulla precarietà e sulle forme invisibili di sopravvivenza.

La Biennale di Istanbul conferma, ancora una volta, la capacità dell’arte di trasformare una città in un laboratorio di esperienze. Tra il brulichio dei bazar e il mormorio del Bosforo, le opere risuonano come echi di un presente turbolento che cerca, nella fragilità di un gatto a tre zampe, la promessa di equilibrio.














