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Salvador Dalì e il dialogo perpetuo con i maestri: la mostra a Roma
Mostre
Dopo la mostra Picasso lo straniero, conclusasi lo scorso giugno, a un anno dalla sua apertura al pubblico, il Museo del Corso-Polo Museale a Palazzo Cipolla si impone tra le istituzioni culturali di primo piano della Capitale. Il museo rilancia la sua programmazione con un’altra esposizione dedicata ad un artista che ha segnato indelebilmente l’arte del Novecento: Salvador Dalì.
La mostra è organizzata da Fondazione Roma, con la rinnovata collaborazione di MondoMostre e l’apporto della Fundació Gala Salvador Dalì, depositaria del lascito dell’artista. Un’altra iniziativa ambiziosa che si inscrive in un rapporto di continuità con la precedente non solo per la scelta di un’artista di analoga statura ma anche perché il percorso espositivo prende le mosse proprio dal dialogo tra Picasso e Dalì.
Il gusto per la provocazione, la ricerca del paradosso, l’esasperato egocentrismo rendono il pittore catalano una figura amata dal grande pubblico. Tuttavia, l’esposizione si spinge oltre l’immagine cristallizzata del genio eccentrico, addentrandosi nel rigore scientifico dei suoi studi, nella sua morbosa ossessione per i modelli, nella sua idea di rivoluzione artistica che non può prescindere dal rispetto della tradizione e dal lascito dei grandi maestri.
«Viva l’arte moderna, a condizione che si dipinga a partire da Raffaello» reca una delle frasi più rappresentative dell’artista. Una mostra che, attraverso le parole e il linguaggio pittorico di un maestro del Novecento, affronta il rapporto tra tradizione e modernità. Si tratta di un viaggio che si addentra nella mente dell’artista, nei suoi meticolosi studi, nel suo rigore pittorico e in quella che viene da molti definita come megalomane superbia, lungi dall’elevarla a carattere qualificatorio.

L’articolazione del percorso espositivo non segue un rigoroso criterio cronologico ma si sviluppa piuttosto attorno al rapporto dialettico tra l’opera di Dalì e quella dei suoi modelli: Picasso, Vermeer, Velázquez e Raffaello. Quattro sale espositive, ciascuna delle quali dedicata al dialogo tra il pittore catalano e gli artisti cui attinge e con cui si confronta. Un percorso tematico che, tuttavia, scandisce le fasi della sua maturazione artistica attraverso opere, disegni, documenti, supporti audiovisivi che concorrono a restituire la sua personalità, troppo complessa per essere riduttivamente etichettata come eccentrica.
L’essenza del titolo della mostra Dalì. Rivoluzione e tradizione è condensata in questa frase dello stesso artista: «Se vi rifiutate di studiare l’anatomia, l’arte del disegno e della prospettiva, la matematica dell’estetica e la scienza dei colori, lasciatevi dire che questo è un segno più di poltroneria che di genio […]. Cominciate a disegnare e dipingere come gli antichi maestri, poi fate come volete, sarete sempre rispettati».

Picasso e Dalì : tra ammirazione e superamento
«Quali pittori contemporanei ammira, se ce ne sono?» chiede Mike Wallace a Dalí durante un’intervista nel 1958. Parlando di sé in terza persona, come è solito fare, il pittore risponde: «Prima di tutto Dalì. Dopo Dalì, Picasso. E dopo di loro nessun altro. Questi due, Dalì e Picasso sono i due soli grandi geni dell’epoca moderna».
La conoscenza della pittura di Picasso irrompe negli anni della sua formazione quando, molto giovane, si lasciava sedurre dai diversi movimenti avanguardistici del suo tempo. Dalì nutre da subito un’ammirazione reverenziale per l’artista di Malaga, che incontrò per la prima volta nel 1926, nel suo studio di Parigi. La prima sala intende rilevare proprio tale venerazione ravvisabile nell’approccio spiccatamente cubista degli anni ’20 che si manifesta nella sintesi geometrica delle forme, nella ridotta gamma cromatica, nella scomposizione dell’oggetto in più piani delle due nature morte del 1923 e delle Figure sdraiate sulla sabbia del 1928. Comune a Picasso è altresì la scelta della tecnica impiegata (un misto di olio e collage su cartone) e dei soggetti, come dimostra il Pierrot con chitarra del 1923 che rievoca i dipinti del cubismo sintetico maturo di Picasso, quale, tra gli altri, La chitarra, eseguita dieci anni prima. Davanti a queste opere, il visitatore si immerge in un tentativo di ricomposizione dell’immagine, quasi dissolta nella superficie del dipinto.

Attraverso documenti e pannelli audiovisivi emergono anche le differenze che intercorrono tra i due pittori spagnoli. Una notevole distanza anagrafica, posizioni politiche opposte, una diversa reazione alla guerra: l’isolamento per Picasso, la fuga per Dalì che emigra in America. Tuttavia, come accade con ogni modello, dopo essersi fatto ispirare da Picasso, egli sente l’esigenza di superarlo.
Dapprima vi è la scoperta di un nuovo linguaggio figurativo nel pieno della sua fortuna tra i giovani artisti, poeti e scrittori surrealisti della cerchia di André Breton nella Parigi delle avanguardie. Da quel momento integra le nuove suggestioni con quelle cubiste, rielaborandole in maniera originale sul piano dello stile, del colore e del soggetto. In seguito, interviene la scoperta della psicanalisi freudiana, la fisica nucleare e lo studio dei grandi maestri del Rinascimento italiano che confluiscono in una profonda rielaborazione intellettuale e artistica. Dopo l’esilio negli Stati Uniti si impone l’irrimediabile decisione di ritornare alle origini e dichiara con enfasi il suo obiettivo: «DIVENTARE UN CLASSICO! […] Ora o mai più».
Dunque, tutta la prima sala è attraversata dal binomio attrazione-sfida, emulazione- superamento, binomio che emerge direttamente dalle opere in mostra ma anche da pannelli didascalici, puntuali e precisi, che guidano l’osservatore alla lettura di tale confronto; dall’esposizione di pagine del Manoscritto sui 50 Segreti dell’Arte Magica e di schizzi e studi che consentono di ricostruire il pensiero che presiede la produzione artistica di Dalì.

Reinterpretare Las Meninas attraverso la stereoscopia
La seconda sala è dedicata quasi interamente alla fascinazione che genera Las Meninas di Velázquez su Dalì. I pannelli riportano tale ammirazione impiegando direttamente le sue parole: «Las Meninas di Velázquez mi offre delle informazioni di una precisione straordinaria: sento di conoscere il dipinto fino all’odore che pervade la casa dell’infanta». A partire dal 1960 tale ammirazione si traduce nella produzione di numerose opere dedicate al dipinto ma al rispetto dei soggetti riprodotti del maestro barocco si affianca il ricorso a tecnologie e tecniche nuove che riflettono una diversa interpretazione dello spazio.
È il periodo delle sperimentazioni stereoscopiche, volte a restituire l’illusione della tridimensionalità. L’obiettivo è quello di far vedere due immagini molto simili, ma non identiche, che differiscono però per alcuni dettagli e alcune variazioni cromatiche vistose. Il visitatore può fare direttamente esperienza del risultato di tale tecnica, avvicinandosi allo specchio che divide due dipinti quasi identici. Alla visione simultanea delle due immagini, il cervello le fonde e le percepisce come un’unica opera tridimensionale.
La reinterpretazione daliniana di Velázquez, oltre a riconoscerne l’indiscusso valore quale maestro del barocco spagnolo, elevò la sua figura a imprescindibile punto di riferimento per l’evoluzione di nuove forme di rappresentazione visiva. Tale fase di fervida sperimentazione prepara il terreno per il consolidamento di un nuovo momento artistico per il pittore catalano che che egli battezzò “iperrealismo metafisico”.

Dal realismo di Vermeer al metodo paranoico-critico
In una delle pagine del celebre Manoscritto sui 50 Segreti dell’Arte Magica di Dalí si trova la Tabella comparativa dei valori secondo l’analisi daliniana, una vera e propria “pagella” degli artisti predecessori e a lui contemporanei. Dalì non esclude di votare anche sé stesso, attribuendosi voti anche molto alti, ma c’è un pittore in particolare a conquistarsi il primato nella tabella valutativa, ricevendo il punteggio in ventesimi più alto in ispirazione, originalità, genialità, composizione: Johannes Vermeer. Sorprendentemente non incluso da Dali nel novero dei grandi maestri della pittura nella rivista Studium del 1919, il pittore di Delft esercita sul pittore catalano un indubbio fascino per l’impiego della luce e del colore. Tuttavia, l’autentica ossessione per Vermeer, dallo stesso Dalì definita «delirante», maturata fin dai 9 anni, deriva dal dipinto “La merlettaia”.

La terza sala mette il luce l’ossessione che egli matura per la riproduzione di figure femminili intente a cucire. Sono donne del suo ambiente domestico: la nonna, la sorella, ragazze che osserva mentre sono concentrate in quel minuzioso lavoro. Le colloca sempre vicino a una finestra o a un balcone. Ad affascinare Dalì è quest’attività così intima e solitaria, immersa in un immobile silenzio. Inizialmente si tratta di fedeli riproduzioni de La Merlettaia, ma in seguito si fa strada l’esigenza di interpretare quella quiete come rivelatoria di un mistero ulteriore, e tali riproduzioni iniziano ad esser rivestite di una patina di mistero ed enigma. Nel reinterpretare gli stessi soggetti, al realismo di Vermeer si contrappone finalmente il suo metodo paranoico-critico.
Qui, troviamo alcune tra le più grandi testimonianze di tale momento artistico: Elementi enigmatici in un paesaggio e L’immagine scompare del 1938.

«Chissà se un giorno, senza volerlo, sarà considerato il Raffaello della mia epoca?»
A sugellare il percorso espositivo è l’ultima sala dedicata al maestro di Urbino il quale rappresenta il modello su cui Dalì proietta il proprio ideale artistico e la propria concezione umanistica. Raffaello costituisce per lui l’emblema della perfezione estetica. La sua influenza si manifesta con maggiore evidenza nelle opere degli anni ’70. La sua è una vera e propria volontà di calarsi nelle sue vesti, di incarnare il Raffaello della sua epoca, come dimostra in primo luogo l’Autoritratto con il collo di Raffaello. Questo tentativo di immedesimazione, di sovrapposizione, e confusione tra i tratti dell’uno e dell’altro ravvisabile nel dipinto è altresì dimostrato dalle sue memorie, ove si legge: «Mi ero lasciato crescere i capelli, lunghi ormai quanto quelli di una fanciulla, e guardandomi allo specchio, assumevo volentieri l’espressione di malinconia, l’affascinante atteggiamento di Raffaello nell’autoritratto. Mi sarebbe piaciuto tanto assomigliargli!».

Ovviamente, gli strumenti di indagine della realtà, la conoscenza dello spazio, la coscienza dell’uomo moderno sono cambiati, e i temi affrontati dal maestro urbinate sono stravolti e tradotti nel suo indistinguibile linguaggio, convenzionalmente definito “misticismo nucleare”. La Madonna del Cardellino è ripresa nella Madonna microfisica e in La velocità massima della Madonna di Raffaello ma, in quest’ultima opera, il volto della Vergine è scomposto in sfere, figure geometriche perfette, e in forme che richiamano i corni di rinoceronte, nelle quali Dalì individuava forme di spirale logaritmica, basate sulla divina proporzione. È qui che viene in luce con forza il rapporto tra tradizione e linguaggio moderno attorno a cui è imperniato il percorso espositivo. Il far tabula rasa del passato non è un gesto di innovazione. L’ancoraggio ai modelli è cruciale per un’artista per divenire tale. Ciò che cambia sono gli strumenti di indagine del mondo attraverso i quali i modelli sono rielaborati. «Se Raffaello dipingeva una Vergine secondo la cosmogonia del Rinascimento, oggi questa cosmogonia è cambiata. Lo stesso soggetto dipinto da Raffaello, se Raffaello lo dipingesse oggi, avendo altre conoscenze (fisica nucleare, psicoanalisi, per esempio), lo dipingerebbe bene come allora, ma risponderebbe alla cosmogonia odierna. E il tema religioso è, per me, il più antico e il più attuale; ma deve essere trattato secondo le conoscenze scientifiche del nostro tempo».

La mostra Dalì. Rivoluzione e tradizione non si propone un fine meramente descrittivo ma riesce abilmente a coniugare il rigore dell’analisi tecnico-artistica con la forza evocativa della suggestione estetica, articolandosi con coerenza tra gli spazi di Palazzo Cipolla secondo un approccio critico. Un itinerario che riflette un disegno curatoriale solido che rivela, utilizzando le parole e l’opera di un maestro del Novecento, come la rivoluzione nasca dal dialogo perpetuo con la tradizione.














