06 dicembre 2025

Il tempo secondo Barenboim: due concerti, un Maestro e l’arte di unire il mondo

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Il mitico direttore Daniel Barenboim torna sul podio alla Berliner Philharmoniker e alla Scala di Milano, a 83 anni: due concerti per un racconto di fragilità fisica e grandezza interpretativa

Phil Barenboim, Berliner Philharmoniker, crediti Monika Rittershaus

La musica vive nel tempo, forse la musica è il tempo. Con i suoi “infiniti possibili”, per dirla con Luigi Nono. Pensieri che frullano in testa quando si va ad ascoltare certi concerti. Due, specialmente: il primo a Berlino, il secondo alla Scala di Milano. Cosa accomuna i due concerti? Un grande maestro di 83 anni. Dei Berliner Philharmoniker Daniel Barenboim è direttore onorario. Vi torna, qualcuno sibila, per l’ultima volta, date le sue pessime condizioni di salute, che però altri dice migliorate, anche se con il Parkinson è difficile migliorare. Procede verso il podio faticosamente, accompagnato dal calore affettuoso dell’orchestra e dalla fervida ammirazione del pubblico che occupa quasi per intero le 2700 sedute dell’acusticamente impeccabile sala pensata dall’architetto Hans Scharoun. L’atmosfera è magica, commovente rivedere l’infaticabile, poliedrico Maestro Scaligero degli anni milanesi, ora dal passo lento, un po’ barcollante, per ogni evenienza una sedia sotto il podio su cui s’arrampica stentato.

Ma poi, appoggiato allo schienale, relativamente fermo il braccio sinistro, dal suo gesto misurato, l’orchestra di fronte a lui, devota, avvia un brioso Weber dell’Ouverture dall’Oberon, quindi l’attacco dell’Incompiuta, proprio quella di Schubert, i sei contrabbassi quasi inudibili che profilano il disegno in si minore, seguito da quello che fa ad inesorabile accompagnamento ai frammenti melodici dell’oboe e degli altri fiati. Dopo Schubert, la Settima Sinfonia di Beethoven. L’“apoteosi della danza”, come Wagner ha imposto di dire agli studenti impreparati agli esami di Storia della musica. E allora, pensando a quella “apoteosi”, che non è “della danza” ma del tempo entro il quale la vita, la musica e la danza stessa si consumano, ricominciano a frullare in testa quei pensieri proprio sul tempo musicale, perché il procedere ha un respiro ampio, sontuoso ma, di nuovo, inesorabile, i forti contrasti dinamici di entrambi i movimenti della celebre sinfonia suonano quasi inevitabili, insostituibili. Qualcuno storce il naso, scelte agogiche insostenibili o, meglio, sostenibili solo dai fiati dei Berliner. La qualità del suono potrebbe risentirne ma non per loro. Barenboim lo sa, e confida nella loro superiorità tecnica, nella quasi/perfezione delle loro prove.

L’Allegretto, con il suo metro dattilico, ha una tempo che accoglie in una misura l’intera cellula motivica del Vivace, primo movimento. Mai sentito prima. Anche terzo e quarto movimento sono sotto tempo ma le priorità di interpretazione e di ascolto continuano a essere altre, si ha l’impressione di esser lì non solo per ascoltare ma soprattutto per incamerare pensieri ed emozioni da raccontare un giorno o l’altro. Applausi sentiti ma composti alla fine, non ovazioni. Il maestro ringrazia e lancia un paio di sorrisi, sembra persino stare meglio. Poi se ne va.

Alla Scala Barenboim ha ricoperto l’incarico di direttore musicale dal 2011 al 2014 ma, s’è detto, già nel 2006 era stato nominato “Maestro Scaligero”. Un incarico che lui prese sul serio, offrendo non solo importanti contributi dal podio, ma anche al pianoforte, strumento di una vita e del quale è stato interprete di riferimento. Pochi giorni prima della scadenza del suo incarico, presentò l’esecuzione del ciclo integrale delle Sonate di Schubert, evento molto raro. Dunque niente di più naturale immaginare che, come per i Berliner, anche alla Scala potesse ritornare, condizioni di salute permettendo. E così è stato e, come con i Berliner, pure con l’Orchestra Filarmonica della Scala Barenboim ha tenuto ben tre concerti nell’ambito della stagione sinfonica. Questa volta però con un programma solo beethoveniano, abbellito, in tutti i sensi, dalla presenza di una grande violinista, la georgiano-tedesca Lisa Batiashvili.

In sede critica faccio mia la bella osservazione di un amico, Pietro, che pur ascoltando a distanza, a proposito della sua Quinta Sinfonia beethoveniana ha parlato di «Plastica grandiosità, non di fissità marmorea, perché c’è anche vitalità ritmica». Lui pare star meglio ma la lentezza persiste, segno che le scelte di tempo non sono necessariamente legate alla malattia. Come a Berlino, cosi a Milano, la lentezza non è mai estenuazione ma, appunto, “plastica grandiosità”. Quel respiro profondo del tactus, ben lungi dal risultare pesante e pedante, è, in fondo, una sorta di battito cardiaco quasi “elastico”, risponde alle ragioni, appunto, del cuore ben più che della testa. Ed è a questo punto che non si può fare altro che condividerne il flatus, oppure rifiutarlo perdendosi però qualcosa di bello, appartenente ad una esperienza rara, un’esperienza non solo di ascolto. La splendida Batiashvili non solo lo ha colto in pieno, ma si ha avuto l’impressione che fosse il suo violino, e il suo tempo che il violino governava, a condurre l’esecuzione, fra l’altro, almeno nel primo movimento, dove questa “lentezza” s’è percepita maggiormente, e dove lei interveniva anche nella parte dei primi di fila.

Non a caso l’anziano maestro ha ringraziato con grande calore la superlativa virtuosa alla fine del concerto di Beethoven, prima del singolare bis, quando lei s’è presa da solista la parte dei primi nell’Aria sulla Quarta corda dalla Suite in si minore di Bach, lasciando a riposo i secondi.

Una piccola riflessione a margine, che è poi una domanda. Come si sentirà l’israeliano Barenboim di fronte allo scempio di una masnada di suoi connazionali al potere e altrettanti coloni criminali che con le ruspe, protetti dall’esercito, distruggono le case dei palestinesi nei territori occupati, e quell’esercito continua a uccidere bambini innocenti? Lui, che i più giovani fra quei palestinesi, grazie al progetto dell’West-Eastern Divan Orchestra voluta con Edward Said, era, almeno per un po’, riuscito a unire ai coetanei israeliani nel nome della musica? Unanswered question…

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