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Il problema dei capolavori dell’arte in prestito? Una soluzione ad altissima definizione
Beni culturali
Lo Sposalizio della Vergine di Raffaello potrà viaggiare per il mondo. Come molti altri capolavori, altrettanto delicati e preziosi, altrimenti inamovibili. Accadrà grazie alle loro copie digitali, una versione molto avanzata realizzata da Save the Artistic Heritage, un’associazione no-profit dedicata alla salvaguardia del patrimonio artistico. Presieduta da Mario Cristiani, fondatore nel 1990 a San Gimignano, con Maurizio Rigillo e Lorenzo Fiaschi, della Galleria Continua che, con le sue mostre, ha lasciato e continua a imprimere un segno profondo nel sistema dell’arte contemporanea internazionale.
Si tratta di una soluzione brevettata: le copie sono numerate, autenticate, certificate e il tutto avviene sotto la rigida supervisione dei musei. Per ora si parte con la Pinacoteca di Brera, che accetta la sfida, riconoscendone potenzialità e rischi avendo fatto realizzare la riproduzione dello Sposalizio della Vergine di Raffaello e del Bacio di Hayez. Ma ci sono altri musei italiani in trattativa.

«Questo sistema aumenta il potenziale di una conoscenza diffusa dell’arte, che consente di mantenere intatto il diritto dell’opera. È una riproduzione digitale all’avanguardia, numerata e certificata dalle istituzioni che conservano gli originali. Cedono i diritti di riproduzione vincolata e prendono una percentuale sulla vendita», spiega Cristiani, che con il suo progetto di arte pubblica Arte all’arte, dell’Associazione Arte Continua, prosegue nello stesso intento di far conoscere l’arte a platee sempre più ampie e diversificate.
«Si tratta di edizioni digitali realizzate da Cinello. Sono numerate, in nove esemplari, sei delle quali destinate ai “patron”, cioè coloro che le acquisteranno, e tre rimarranno di proprietà ai musei, per poter essere prestate. I patron sono una sorta di nuovi mecenati, proteggono il valore originale dell’opera, diventandone a modo loro custodi».
Il tutto è possibile grazie a un brevetto registrato che rende, sostanzialmente, i file digitali opere uniche e irripetibili: il patron riceverà una chiavetta particolare con il file che sarà riprodotto sullo schermo: un algoritmo li metterà in comunicazione e così l’opera apparirà soltanto con questa unica combinazione. Impossibile tentare di riprodurla una seconda volta e più. Una roba degna di Q, l’inventore geniale di James Bond, alias 007, per garantire la massima sicurezza.
Da questo progetto si profila anche di un nuovo modo di finanziare i musei, cui andrà il 50% del prezzo di vendita di ogni file, una cifra intorno ai 100mila euro. «Così si può salvaguardare anche il patrimonio artistico garantendo indipendenza e imparzialità ai musei grazie alle entrate da questi “prestiti” digitali che arriveranno direttamente nelle loro casse», precisa Cristiani, che sarà in tour in Cina per proporre il progetto.
Nonostante i vantaggi rimane la verità, secondo molti incontrovertibile, che l’originale mantiene un fascino unico: la forza espressiva nelle pennellate in vista e la patina del tempo, la vividezza dei colori. Però si sta scrivendo un nuovo capitolo che riguarda la fruizione dell’opera d’arte nella contemporaneità e il concetto di copia. Anche se le copie hanno già avuto un ruolo di rilievo nella storia dell’arte.

A desacralizzare l’originale – pur se è difficile che accada fino in fondo – a favore della copia digitale hanno contribuito diversi studiosi al convegno che si è tenuto alla Biblioteca di Brera. Il titolo Copie, repliche ed edizioni nella storia dell’arte, è stato affrontato da diversi studiosi: Francesco Guzzetti, professore di storia dell’arte contemporanea, Giovanni Maria Fara, Maria Cristina Terzaghi e Simone Facchinetti, docenti di Storia dell’Arte moderna, e Salvatore Settis, Accademico dei Lincei, con Arturo Galansino, direttore della Fondazione Palazzo Strozzi, come moderatore.
Guzzetti ha raccontato come negli anni ‘60 si fosse sviluppato il concetto dell’arte moltiplicata, cinetica e programmata e dell’Arte Povera. Torino è stata una protagonista, tra gli altri, con Giorgio Persano, che chiamò Multipli la galleria, anche se, in seguito, gli artisti intervenivano comunque sulle “copie” rendendole quindi uniche. Guzzetti ha continuato citando dei precedenti illustri, Medardo Rosso e Auguste Rodin: il primo ripeteva lo stesso soggetto ma con materiali diversi o interventi successivi per farne un pezzo unico, mentre il secondo non controllava le diverse fusioni in bronzo. Guzzetti cita ovviamente i ready made di Marcel Duchamp, replicabili facilmente, essendo oggetti quotidiani. L’autenticità non ha più a che fare, dunque, con l’unicità perché, anzi, l’opera si considera solo in quanto è diffusa e circolante.
Giovanni Maria Fara ha spiegato come la serie della Grande Passione di Albrecht Dürer, le sue xilografie in serie del 1511, sono state scelte dall’Accademia delle Arti del Disegno come modelli da copiare. Maria Cristina Terzaghi ha raccontato del Caravaggio giovane e squattrinato che, ventiquattrenne, è in cerca di un lavoro e di una casa e, per questo, andò a lavorare a giornata nelle botteghe di via della Scrofa, che eseguivano dipinti seriali. Forse per vivere fece delle copie anche delle sue opere, fino a quando «Nell’estate del 1597 entrò nella scuderia del cardinale Francesco Maria Del Monte, senza più preoccuparsi di sbarcare il lunario». E invece furono altri a copiare le sue opere dopo la sua morte, per rispondere alla domanda del mercato. Simone Facchinetti ha illustrato il tema delle copie e dei falsi sul mercato, citando esempi di capolavori proposti a prezzi inadeguati per l’opera: «Uno per tutti un ritratto a tre quarti di figura attribuito nel 2021 da una casa d’aste a Tiziano stimandolo 750mila-1 milione di euro, una cifra troppo bassa perché un’opera autografa secondo le stime consuete vale intorno ai 10-15 milioni».
A fare ordine, l’intervento di Salvatore Settis, un tema di cui è esperto, visto che ha realizzato due importanti mostre a riguardo, Serial Classic, nel 2015 alla Fondazione Prada di Milano, e Portable Classic nella sede di Venezia. Settis ha affrontato il tema dell’autenticità ricordando come si declini diversamente in molte culture. Un esempio molto significativo avviene in Giappone, dove i santuari shintoisti di Ise vengono ritualmente distrutti e ricostruiti ogni 20 anni, conservandone una sola colonna. E poi definisce cos’è una copia e quali ne sono le tipologie: «C’è la copia devozionale, un esempio del Volto Santo (IX secolo) di Lucca, un’immagine replicata ovunque nel Medioevo, non sempre in modo preciso, ma identificabile». Poi ci sono le copie di sostituzione, come i Tirannicidi (510 a.C. circa) nell’Agorà di Atene che furono presi dai Persiani nel 480 a.C. e in seguito vennero fatti rifare da altri scultori. Le loro copie romane, invece, sono del I-II secolo d.C. ed erano eseguite attraverso calchi di gesso. Ci sono poi le copie da collezione, come quelle del Discobolo di Mirone: «Quello originale è scomparso e noi possiamo conoscerlo solo attraverso le copie, prodotte da officine specializzate». Ma ci sono anche le copie anti-usura, come le pale d’altare della Basilica di San Pietro in Vaticano, prima fra tutte la riproduzione della Trasfigurazione di Raffaello. E ci sono le copie d’Accademia e delle gipsoteche e infine le copie sperimentali di laboratorio per studiare alcune opere.
Settis non ha dimenticato certo di sottolineare come stampa permise la divulgazione di opere e lo sviluppo di un mercato specializzato. Così come la fotografia e poi le tecnologie digitali hanno posto la copia su un piano completamente nuovo, consentendo una fedeltà sempre maggiore. Questo ha reso più facili le copie di sostituzione, come nel caso delle Nozze di Cana del Veronese, riposizionato a San Giorgio Maggiore con una copia digitale: «Solleva interrogativi profondi sulla valenza dell’originale strappato al contesto e sul potere della copia di sanare la ferita storica». Settis ha quindi concluso citando Walter Benjamin e il suo testo fondante, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: se la tecnologia ha reso più facili le copie di sostituzione, ha anche sollevato dibattiti sull’eccessiva fedeltà che, secondo alcuni, potrebbe mettere a rischio l’aura originale.












