03 marzo 2011

COSTELLAZIONE NON PROFIT, V

 
di helga marsala

Continua l’indagine di Exibart sulla scena del non profit in Italia. La prima inchiesta, ampia e ragionata, sul fenomeno degli spazi indipendenti. Dopo il capitolo sui collettivi, si prosegue con l’analisi dei project space. Dal Nord al Sud, un viaggio attraverso filosofia, dinamiche, vocazione e attività di questo interessante spaccato dell’art system nazionale...

di

CAP. 2. GLI SPAZI PROGETTO, III

Nelle quattro
puntate precedenti abbiamo raccontato di: a.titolo, Progetto Isole, 1:1, Art at
Work, Erbematte, Harpa, Radice Quadrata, BOCS, Lungomare, Peep-Hole, Brown,
Nosadella.due, 26 cc. Ora due nuove tappe, a Milano e Torino, con una
sbirciatina a Trento…

LUCIE FONTAINE
– milano

Sono in tre.
Lei e i suoi due “impiegati”. Così le piace chiamarli: non hanno un nome, forse
nemmeno una faccia. Può darsi che ai due fidati collaboratori piaccia rimanere
anonimi; o magari, plausibilmente, dietro quella strana coppia si cela una folla
eterogenea ma compatta. Oppure, chissà, Lucie ha più di un alter ego con cui
fare i conti. In ogni caso, il gioco della dis-identità pare stare alla base di
questo “artist run space” milanese,
conosciuto come Lucie Fontaine: l’assonanza
con i nomi Lucio Fontana o Claire Fontaine
(collettivo artistico parigino con cui esiste una dichiarata “sorellanza”)
dischiude già l’indole citazionista, ambigua, plurima e concettuale del
progetto.

Se provo a
chiederle qualcosa di più sui due fantomatici impiegati, mi risponde proprio con
una citazione colta e affilata: “Non ha
senso che io ti dica chi siano. Come dissero Deleuze e Guattari: ‘Abbiamo
scritto l’‘Anti-Edipo’ in due. Poiché ciascuno di noi era parecchi, si trattava
già di molta gente’
”. Una, tre, oppure moltissimi. Lucie Fontaine è un
luogo dell’arte e per l’arte, in cui si gioca con la differenza, il molteplice
e il pensiero rizomatico.

Tutto comincia
nel 2007 da un’idea o, meglio, da un’urgenza creativa di Lucie, artista, curatrice
e scrittrice, divisa tra Milano e la natia Francia: “Il punto di partenza è stato la mia passione per l’arte italiana.
Quello che mi interessava era mettere in questione le regole del sistema
dell’arte e i ‘rapporti’ che lo connotano. Gli obiettivi del progetto sono
molteplici. Somma i due precedenti e moltiplicali a piacere
”.

Con l’investigazione
e l’attraversamento della pratica artistica si tenta di mettere in discussione
codici e formule noti. Operazioni ricombinatorie, sottrazioni, assemblaggi,
moltiplicazioni; e poi prospettive, ruoli e metodi che si mescolano. Lucie Fontaine - LUFO (14).jpg - immagine HTML format - 72 pixel/cm - courtesy T293, NapoliPurché si
proceda giocando, muovendosi “a piacere”, così che il calcolo sia spinto in
tutte le direzioni possibili. Mille piani e mille traiettorie: come nel rizoma
deleuziano, in cui le gerarchie vengono meno, i sentieri prolificano e le linee
di fuga del pensiero si fanno infinitamente differenti.

Chiamarlo
collettivo – termine convenzionale e forse troppo connotato – a Lucie non sta
bene: “Io prendo le decisioni con i miei
impiegati, senza i quali non esisterei, un po’ come il padrone non esisterebbe
se non ci fosse il servo (per dirla con Hegel). Direi che siamo piuttosto come
una rete
”.

E a proposito delle
categorie stantie del sistema, Lucie Fontaine identifica subito un bersaglio: “In Italia, non appena un artista entra nella
scuderia di una galleria è come se si sposasse. Gli altri non ti guardano più,
finisce tutta la passione e quando bisogna lasciarsi è un casino. Lucie
Fontaine invece è l’amante degli artisti. Con noi ci si diverte e basta, e non
ce la prendiamo se c’è anche una moglie…
”.

Ironica e sagace,
Lucie non si risparmia critiche pungenti.

Molte le mostre e i progetti realizzati fin qui: prima nello spazio di via Conte
Rosso, un vecchio salone da barba, proprio nei pressi di importanti gallerie –
Massimo De Carlo, Zero…, Pianissimo, Francesca Minini, Prometeo… -, poi
nella nuova sede di via Larga, inaugurata a maggio 2010: “Dopo due anni nello spazio-vetrina di Lambrate, adesso siamo dentro una
scuola d’arpa, nella quale ci ‘inseriamo’ con un programma espositivo. Il
nostro nuovo modello è quello della casa-museo
”. Il trasferimento è
avvenuto alla fine di un lungo viaggio di ricerca, una pausa nomadica
finalizzata all’individuazione di un altro sbocco, una nuova direzione.

Tanti
progetti, dicevamo. Tutti importanti per lei, nessuno da ricordare con più
affetto o più attenzione. In fondo, ciò che conta sono il lavoro, il processo e
le relazioni che ne derivano, piuttosto che gli obiettivi raggiunti: “Penso che la cosa più entusiasmante sia lavorare
con i miei impiegati. Siamo come una famiglia
”.

Accanto agli
appuntamenti espositivi, Lucie Fontaine sviluppa varie iniziative. Tra queste, Dov’era la notizia, “una pubblicazione a cura di due
intraprendenti pre-adolescenti, di cui sono editrice
”, spiega Lucie. “Di tanto in tanto invito degli artisti a
fare dei
progetti
nella rivista. I primi: Alek O. e Cleo Fariselli
”. Oppure
Performat – presentato allo Iuav di Venezia
e al festival Performa ’09 di New York -, sorta di performance site
specific ispirata al femminismo degli
anni ’70, in cui si mixavano suggestioni provenienti da Vogue, dal Grande Fratello e dal fenomeno della chirurgia plastica.
Protagoniste la stessa Lucie Fontaine, che interpreta un’idea di Marcella Vanzo, con musiche di Jennifer Walshe. A fungere da memoria
del progetto, un LP limited
edition.

Ed è zeppo di micro-invenzioni
l’immaginario di Lucie Fontaine, stimolanti intuizioni che costellano l’intero
iter creativo. I biglietti da visita musicali ideati per ogni mostra, ad
esempio, cd autoprodotti con suoni sempre diversi; oppure gli inviti, spesso
concepiti come opere di mail art o piccoli lavori in edizione limitata.

Lucie Fontaine - LUFO (7).jpg - immagine HTML format - cm 9,4x14,2 (72 pixel/cm) - courtesy T293, Napoli
Sui fondi che servono a
sostenere le attività, Lucie resta vaga: “Ho generosi donatori privati”, si limita a spiegarci. Del resto, fedele al
discorso iniziale intorno al sistema e alle sue rigide categorie, pare non dare
troppa importanza alla questione del fund
raising
e della distanza tra i settori del profit e del non profit: “Per me queste differenze hanno poco senso. Si
tratta di divisioni obsolete a cui ogni tanto mi devo adeguare per promuovere
il mio entourage. Il ‘lavoro creativo’ è l’unica cosa che conta. Ecco perché mi
presento come ‘datrice di lavoro dell’arte’ (art employer) che lavora con i
suoi ‘impiegati dell’arte’ (art employees)
”. E conclude: “La sola base del mio operato è il rapporto
di lavoro con loro, che si ribalta di continuo. Per esempio, tra di noi chi è
l’impiegato e chi è il datore
?”. Mescolare le carte, per spiegare la natura
complessa dell’arte, così prossima alle idee di scontro e di molteplicità.

In calce a una
mail di Lucie scorgo una frase, usata come nota alla parola ‘due’. Parlava,
anche stavolta, dei suoi “employees”:
In verità io vi dico ancora: se due di
voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre
mio che è nei cieli gliela concederà
”. Dal Vangelo secondo Matteo, capitolo 18, versetto 19.

Una convivenza
nel segno di eros e polemos, quella fra i tre componenti,
reali o virtuali, della squadra di Lucie Fontaine. E certo, il senso dell’arte
sta in buona parte proprio qui, in questa continua tensione creativa tra le
cose e le persone. Una via complessa, dinamica e colma di passione.

Olivier Kosta-Thefaine - Jardin à la française - 2010 - veduta dell’installazione presso Cripta 747, Torino
CRIPTA 747 –
torino

Uno spazio come questo, a
Torino, non c’era. Un luogo dedicato alle arti visive che restasse fuori dalle dinamiche
tradizionali e che fungesse da catalizzatore per energie eterogenee, gestite secondo
meccanismi “ibridi e indipendenti”.

Questo l’incipit per i tre
fondatori di Cripta 747. Per loro, nella grande Torino dell’arte contemporanea,
la Torino dell’arte istituzionalizzata, di Rivoli, di Artissima e delle mega-fondazioni… Un piccolo posto così, forse, mancava
ancora. Un posto votato all’autonomia e alla sperimentazione, ma ben
strutturato a livello operativo e di metodo. Un posto che fosse a un tempo contenitore e cantiere, e che scansasse le consuete
logiche autoriali e identitarie. Non a caso, i tre soci ci tengono a restare
anonimi. Loro sono quelli di Cripta 747, e basta: “Non volevamo affibbiarci una definizione univoca”, ci dicono, “né limitarci a un ambito esclusivo. Ci
interessa favorire la perdita autoriale (ove possibile), ridefinendo insieme i
limiti del fare arte e il rapporto artista/curatore e persona/persona
”.

Centralissima la location, un
edificio settecentesco in Galleria Umberto I, che fu il primo ospedale dell’Ordine
Mauriziano. “Lo spazio è suddiviso in tre
aree
”, raccontano. “C’è una parte
principale, i sotterranei del vecchio passaggio pedonale per la Chiesa di San
Lazzaro e San Maurizio, dedicata alle esposizioni e al laboratorio per gli
artisti; poi un pianterreno, utilizzato per progetti in rotazione e
presentazioni; e infine un piano superiore, con l’ufficio e una piccola
residenza
”.

Esposizioni, residenze, concept editoriali: questo il fulcro delle attività
sviluppate nei primi due anni. Tra i progetti realizzati, uno dei più
significativi è Estremi del libro
d’artista
, mostra sperimentale sul libro d’artista negli ultimi vent’anni.
Si ragiona intorno al ruolo del libro nell’epoca delle neotecnologie digitali,
tenendo come orizzonte teorico “the
Medium is the message
” di Marshall McLuhan; a partire da questo spunto,
Angelo Candiano, uno dei curatori, ha scritto un testo, caricato in forma di e-book
sul portale scribd.com. Allis/Filliol - Tactile - veduta dell’installazione presso Cripta747 project room, Torino 2010Dopo la
lettura del breve saggio, e con l’unica restrizione del formato A4, si è
chiesto ad artisti e lettori di aggiungere pagine al libro virtuale. Successivamente
è stata presentata la pubblicazione, composta da tutti i materiali raccolti, in
un’edizione limitata di 30 copie.

Sono spesso orientati a quest’idea
di collettività e network i progetti di Cripta 747. Come Copia di copia, “il primo di una
serie di esperimenti che prevedono lo scambio e la circuitazione tra gallerie
indipendenti in Italia. Abbiamo cominciato con una project room affidata agli
artisti James Harris, Helena Hladilova e Namsal Siedlecki, tutti membri del Gum
Studio di Carrara
”.

Nel frattempo, i ragazzi di Cripta
747 si dedicano anche alla messa a punto di raduni fra artisti e curatori, “sulla scia di quello realizzato presso lo
spazio BOCS di Catania: un progetto non finalizzato a eventi specifici, se non
al libero dialogo e alla creazione
”. Riunione
di famiglia
si chiamava l’appuntamento catanese, un meeting di giovani
collettivi e spazi non profit italiani, concepito come un festival, un camping,
una tavola rotonda, una comune temporanea, una gita. I partecipanti, tra luglio
e agosto 2010, si sono scambiati esperienze e opinioni, partecipando a un
articolato programma che comprendeva una conferenza, un videoscreening, un
rendez-vous enogastronomico e diverse ricognizioni sul territorio siciliano per
conoscere luoghi e protagonisti della scena locale indipendente. Al termine
dell’esperienza è nata Titolo Grosso,
una mostra o, come la definiscono a Cripta, “un esperimento paracuratoriale/allestitivo, momento d’incontro fra
artisti, esperienze e linguaggi differenti
”.

È infine la musica un’altra costante
delle attività di Cripta 747. Nei sotterranei prendono vita party e concerti,
momenti di raduno festaiolo con un occhio attento alla ricerca sonora. Qui
hanno suonato i MIR, gruppo noise sperimentale
di Basilea, i Mangia Margot, duo di
Vicenza che utilizza strumenti ideati da Roberto
Zanini
, e i BAP – Banda d’Ascolto Profondo, “una jam session realizzata da alcuni
protagonisti della scena sperimentale torinese
, riunitisi un sola notte per una performance spontanea“.

Una fervida attività, per lo
più autofinanziata. Un po’ vendendo opere, un po’ organizzando benefit party,
un po’ mettendoci del proprio. Ma la speranza è di crescere, anche dal punto di
vista dei finanziamenti: “Confidiamo di
ottenere presto un piccolo fondo pubblico/privato, in modo da poterci
relazionare agilmente con le realtà torinesi già consolidate: le fondazioni, il
circuito galleristico, i musei e l’Accademia Albertina
”.

Il rapporto con la grande
Torino istituzionale è dunque auspicato. L’intento è quello di non restare
intrappolati dentro la categoria dell’underground, di non scegliere per forza
il margine come luogo ideale dell’anti-sistema. Allis/Filliol - Untiltled - 2010 - gesso e legnoIntelligentemente, si tenta di
rimodulare il sistema dall’interno, non contrastandolo ma cercando strade per
un dialogo differente: un atteggiamento assai diffuso in ambito non profit.
Nella consapevolezza, però, che l’apparente fragilità di spazi piccoli e ibridi
come questi costituisce in qualche modo un punto di forza. Soprattutto oggi,
con la crisi che avanza, impietosa.

Crisi economica, politica,
strutturale, e anche di idee. “In questo
stato di destabilizzazione momentanea
”, commentano i ragazzi di Cripta 747,
lo spazio progetto, forse il più piccolo
ingranaggio del sistema, lavora, dialoga e continua a proporre, non curandosi
troppo della situazione. Perché in fondo le condizioni di crisi sono per noi la
norma, la realtà in cui siamo nati. Negli ultimi anni la nuova generazione di
artisti italiani si è in parte formata attraverso esperienze maturate in questi
luoghi. E poi… consideriamo che il budget di una singola esposizione in uno
dei maggiori musei italiani potrebbe mantenere in vita un buon numero di spazi
progetto nazionali per almeno tre stagioni, forse
”. Parole sante. E certo
gli elevati budget non sono sempre garanzia di qualità.

Allora, raccogliendo la
provocazione, ecco un suggerimento per i colossi museali nazionali: destinare
l’intero budget di una mega-esposizione a un’ampia rosa di project space, coprendo
almeno un anno della loro programmazione. Una mostra in meno in sede, in cambio
di decine e decine di eventi finanziati outdoor. Un vero progetto allargato, un
vero museo diffuso, un lavoro di espansione territoriale e di concreta produzione
culturale. Noi l’idea l’abbiamo lanciata. Chissà che qualche artista, curatore
o direttore non raccolga…

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helga
marsala

*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 70. Te l’eri perso? Abbonati!


Info: www.luciefontaine.com

www.cripta747.blogspot.com

[exibart]

 

4 Commenti

  1. Spesso mi devo sorbire una paternale moralista sul mio nome suggerito, però quando i nomi sono molto più ammiccanti e vagamente contraddittori (sembrano solo vestiti esotici per nomi italiani troppo poco rassicuranti) va tutto bene:

    “Non ha senso che io ti dica chi siano. Come dissero Deleuze e Guattari: ‘Abbiamo scritto l’‘Anti-Edipo’ in due. Poiché ciascuno di noi era parecchi, si trattava già di molta gente’”

    Mi riferisco ad uno scambio di pareri sul questo blog:

    “Banale è chi si firma con un pseudo nome”

    http://arte-milano.blogspot.com/2011/03/kontrollierte-kraft-simone-berti.html?showComment=1299175068337#c6092169944593743289

    A mio parere il “mi chiamo” dovrebbe essere solo un pretesto, una scusa. E’ necessario abbandonare alcune questioni identitarie desuete. Il Sig. Rossi qualsiasi non avrebbe altro da pensare che non al “cosa” e al “come”. Il “chi” non mi interessa.

  2. Perchè non chiamarsi semplicemente “Lucia Fontana” anzichè “Lucie Fontaine”, piuttosto che “Il Dittatore” anzichè “Le Dictateur? La modaiola Milano colpita dalla sindrome francofona.

  3. già, c’era una volta , ma non molto tempo fa, giusto quando non c’erano i blog e internet era poco più di un giochettino per pochi, c’erano in giro i Vegetali Ignoti , che pur con molte ingenuità avevano già messo da parte il Chi, pensando ( anche se poi loro non pensavano molto…) al Cosa e al Come. Gli mancava il perché. Maledetti falliti che non erano altro.

  4. Mi rivolgo a Luca Scarabelli: e no..perchè se vi chiamate Vegetali Ignoti..c’è evidentemente un ammiccamento identitario. Ma poi il punto sono i contenuti e la loro comunicazione.

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