30 giugno 2018

Vuoti d’amore a Istanbul

 

di

Due nuove mostre, all’Arter – space for art di Istanbul, illuminano il passante distratto – quel passante che sull’Istiklal Caddesi (la bretella che collega Taksim Meydanı a Galata Kulesi, frequentata da circa quattro milioni di persone al giorno) è stuzzicato da mille colori e profumi – per bagnarlo con una luce riflessiva, eccezionalmente acuta, legata alla natura e alla cultura, allo spazio perfetto dell’architettura e a quello altrettanto perfetto degli organismi viventi nel loro ambiente.
Tra il piano terra e il primo piano di questo palazzetto prezioso che presenta come mission i nomi dell’arte contemporanea in Turchia, “Empty House”, la personale di Can Aytekin (Istanbul, 1970) curata di Eda Berkmen, è un racconto sull’architettura, su un luogo intimo, su un ambiente in cui si consuma la vita e contestualmente su uno spazio del ricordo, del sogno, dell’immaginazione.
Svuotata di orpelli, prosciugata di arredi e di oggetti che segnano il quotidiano passaggio della vita, la scena architettonica proposta da Can Aytekin rappresenta un ragionamento sulla pulizia della casa, sulla rivisitazione di una spazialità vissuta in prima persona e ridefinita da una sottrazione che, davanti ai chiari e lucidi occhi della ragione, indica vacuità, assenza di qualcosa o di qualcuno, vuoto d’amore. 
L’interpretazione concettuale dello spazio domestico che l’artista propone in trentasei importanti opere (tra carte, olii su tela e una maquette), è infatti quella «Di un visionario», così lo definisce Matt Hanson sulle pagine del “Daily Sabah”, «Che dipinge il vuoto dagli interni dell’apparentemente banale», del dolore dei giorni che si susseguono e si incrostano di ricordi screpolati dal sole. 
Dopo ben cinque personali – “Tapınak Resimleri / Temple Pictures” (2005), “Kaya Resimleri / Rock Pictures” (2006), “Bahçe Resimleri / Garden Pictures” (2010), “Her Şey Yerli Yerinde / Everything in Native Place” (2014) e “Ters Yüz / Reverse Face” (2016) – dedicate a corpi naturali, al buio che bagna la mente, a una casa intesa come cosa, come scatola di meraviglie sfinite, questo nuovo progetto è una summa totale che appare e scompare, che si mostra e contestualmente mostra l’architettura reale in cui vivere l’esposizione, il momento di lettura dell’opera. 
Al secondo piano dell’edificio, “Isle” di Ali Mahmut Demirel (Ankara, 1972), a cura di Başak Doğa Temür, accoglie lo spettatore in un buio giallognolo e spietato, in uno spazio scenico che imprigiona lo sguardo per trasportarlo in un mondo dove tutto sembra muoversi con lentezza e leggerezza, sotto il silenzio sottile della poesia.
Composto da tre video – The Pier (2015), The Pit (2017) e The Plant (2018) – il percorso offerto da Demirel presenta uno scenario apocalittico, qualcosa di acqueo, qualcosa che se ne sta in disparte sia dalla vita che dalla morte, dove la natura, come una sentinella silenziosa, si riappropria degli spazi per costruire nuovi ecosistemi.
The Pit (2017), video immersivo a tre canali buca ad esempio lo sguardo con una tranquilla irrequietezza, con un sentimento di metamorfosi che se da una parte evidenzia la riappropriazione da parte della natura di ambienti disabitati dall’uomo e la rinascita di un habitat, dall’altra lascia intravedere l’insanità, il letto di morte di una cosa gloriosa. Non ci sono figure umane in questo percorso tripartito, soltanto macerie, tracce di una civiltà (di una verità) la cui mano incurante ha reciso la corda dell’esistenza, senza avvertire alcun pericolo. (Antonello Tolve)

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