11 aprile 2011

Dell’Invidia

 
Angelo Capasso ci offre la sua visione sui roditori, una specie animale di dantesca memoria estremamente diffusa nel mondo dell'arte contemporanea..."Fumo perché è un piacere inutile" - Oscar Wilde

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In questo mondo che perde pregevoli razze di animali e di esseri umani, la popolazione dei roditori avanza in entrambi gli zoo.  Rodersi è il comportamento ratto che l’essere umano ha eletto a modus vivendi nelle relazioni interpersonali ed è divenuto modello tipo di ogni contesto sociale. Anche nell’arte. Roditori si diventa. Rodersi i gomiti, il fegato, la coratella è lo sport preferito di una classe minore di ominidi colpiti dalla tragedia della perdita (dépense batailliana) o dal senso di inadeguatezza: condividono la stessa malattia di Salieri nei confronti di Mozart. Sono invidiosi. Nel contesto dell’arte, l’invidia si presenta come conseguenza del mal interpretato editto beuysiano “tutti siamo artisti”, da cui ha origine la maledizione di questo nuovo secolo dell’arte: tutti siamo critici, tutti siamo curatori, tutti siamo editori, tutti siamo direttori. La definizione di Joseph Beuys non ha portato ad una liberazione dell’arte a libera espressione di una libera società, ma ad una condizione di simulacro perennis, in cui permane un generalizzato tentativo di replicare l’esistente, nella regola che “l’erba del vicino è sempre migliore” (e se la fuma lui). L’invidia non crepa. Non fa una crepa, s’irrobustisce anzi. E’ una sindrome della scena corrente di ogni ambiente culturale che conduce all’inevitabile entropia del senso, a seguito di un comportamento psicotico che contiene in sé un’evidente vena sadomasochistica. Sono invidiosi tutti i tutori del sistema: è invidioso il gallerista del proprio artista di punta: non lo fa esporre altrove, lo tiene stretto a sé in una gabbietta laccata d’oro basso (“we are rats in a cage suicide a go go” come cantavano i Frankie Goes To Hollywood), lo spreme come un’arancia finche diventa tarocco e poi passa al prossimo; è invidioso il critico degli artisti, è lui ad esporsi (“esporre” è il verbo dell’artista per elezione) e a far perfomance più di se stesso che di ciò che pensa; è invidioso l’editore del suo autore: non ne promuove il libro, preferisce che sappia di muffa per venderlo ai più remunerativi negozi Remainders. E’ atavicamente invidioso il politico nei confronti della “cultura” (che non ha) e per questo la affama fino alla morte; è invidioso il Ministro della Pubblica Istruzione della Scuola pubblica: escogita tutti i provvedimenti per amplificare il caos e l’entropia in attesa della sua finale implosione. Sono invidiosi i vecchi immortali nei confronti dei giovani eroi. E’ questa la nuova umanità. L’essere roditore impera con il suo riabilitato dubbio amletico “Rosico oppur mi rodo?” 

L’etimologia del termine “invidia” rivela il suo legame con il “vedere”, l’atto regale che conferisce consistenza all’arte: in-videre significa avere un occhio malvagio fino a non vedere più l’altro, a volerne la sparizione. L’invidioso è un potenziale serial killer mosso dalla tristezza per la constatazione della felicità altrui. Dante mette gli invidiosi nel Purgatorio, con i corpi coperti dal cilicio e gli occhi cuciti con fil di ferro, a punizione dello sguardo carico d’invidia che hanno rivolto in vita contro il prossimo; gli invidiosi danteschi siedono appoggiati l’uno all’altro, al contrario che in vita, quando tentavano di rovinarsi a vicenda. Si riconciliano nell’al di là, dove l’arte, la cultura, fioriscono nell’immortalità vera. Che sia nell’al di là la grande antologica di Gino De Dominicis di cui qui nell’Inferno dell’invidia abbiamo solo una cinica risata? La Commedia di Dante sottolinea, non tanto la fortuna dell’invidiato, quanto il senso miserabile di chi invidia. E si vedono in viso gli invidiosi, secondo una riabilitata fisiognomica: l’occhio vispo perché aggiornatissimo sulle fortune altrui; silenzioso e un po’ riservato, ha poco da dire, ma se costretto ad esprimersi parla bene di tutti; veste in modo anonimo per evitare di cadere nell’attenzione pubblica; fa battaglie etiche di alto valore morale, ma nasconde un animo fascista intollerante e giustizialista pronto a far stragi per lasciar spazio al proprio ego infinito. Non ultimo è il suo patto faustiano col diavolo per raggiungere il grande progetto dell’immortalità parassita che lo vorrebbe un po’ artista (“almeno un po’ artista per carità!”). “Essere un po’ artisti” è una delle espressioni che normalmente si associano ad alcune cose che propriamente sono la stravaganza (il comportamento) e l’abilità (creatrice, la forma). 

Cosa rende invidiabile l’arte, che pur resta affamata dai grandi sistemi economici industriali? L’arte è un’ascensione sublime in cui è possibile assumere un comportamento extra vagante. L’artista è invidiato perché gode della libertà eccellente di fare liberamente in nome dell’arte, senza regole. Una forma di privilegio che lo rende inattaccabile, povero o ricco che sia, intelligente o stolto, bello o brutto. Nella crisi totale della civiltà economica, l’accesso 

a quel banchetto rende invidiosi e richiama la folla. Dalla follia dell’arte per pochi alla folla di roditori, ci troviamo davanti ad una minaccia ben più grave di quella retorica constatazione di “morte dell’arte” che si registrava negli anni settanta. Siamo nel turbine cinico e ratto che sembra seguire le ambizioni del primo Grande Invidioso del novecento: Hitler, colui che si considerava il più grande artista del ventesimo secolo e ha sfogato la sua violenza contro l’ “arte degenerata” di avanguardia nella mostra storica del 1937, nascondendo però nel cassetto (come ci ha rivelato l’artista indiscusso ed indiscutibile Fabio Mauri) il suo primo disegnino da artista in erba: un disegno espressionista molto degenerato. Col suo rigore fascista e narcisista, figlio del più efficiente modernismo Hitler intendeva cancellare le brutture e celebrare l’arte della perfezione di Goebbels e Leni Riefenstahl, consapevole però che egli stesso era parte di quelle cosidette brutture. Come concilia Hitler (minuto, supplichevole e in ginocchio, per Cattelan, e ancor oggi degno di censure e rimozioni invidiose) e la volontà omicida, o suicida, dell’arte, in cui la folla si sostituisce alla sana follia daliniana del fare libero per lasciare spazio alla massa anonima che si fa largo con i denti, tra cui si presentano già i sintomi del paradosso: come Hitler, può avere a che fare con l’arte un criminale incallito, uno stragista senza cuore, un brigatista rosso invaso dall’ideologia del terrore o un serial killer? A quando una mostra curata dal mostro di Firenze pentito della propria mostruosità e invidia della bellezza della vita e dell’arte da cui intende ricevere l’assoluzione? Installeremo forse dei metal detector per rilevare i nuovi ferri del mestiere? O invece, considerato il termine pragmatico ormai imperante: quando scioglieremo il grande paradosso linguistico del termine “curatore” accogliendo finalmente un bel medico chirurgo che fa scelte estetiche con tanto di terapia finale a base di protesi, antibiotici e vitamine? 

L’invidia è un sentimento complesso. Distrugge l’amore creativo che pur dell’arte è stato l’unico alimento, la sua qualità sociale, culturale, fin anche economica. Una forma di oscurantismo, figlio dell’invidia, in Italia, è il ritorno alla storia: le continue e ossessive celebrazioni del passato. Sempre meglio un morto che non parla. Anche qui, vale la regola del roditore: “L’elogio per gli autori antichi scaturisce non dalla venerazione per i morti, ma dall’invidia per i vivi” (Thomas Hobbes). 

(to be continued…)

angelo capasso


*articolo pubblicato su Exibart.onpaper n. 72. Te l’eri perso? Abbonati!

[exibart]

 

3 Commenti

  1. Complimenti per il suo articolo. Soprattutto molto originale. Condiviso sulla mia bacheca e molto molto apprezzato dai miei amici. Distinti saluti. Luca.

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