29 ottobre 2004

Double Gordon

 
di christian caliandro

Il tema del doppio nelle videoinstallazioni anni Novanta di Douglas Gordon, da Confessions of a justified sinner a Left is right and right is wrong…. Dissociazioni, riflessi, riproduzioni. Attraverso Stevenson e Carroll, per arrivare a Benjamin. Quando la schizofrenia si fa arte…

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L’artista che negli anni Novanta ha affrontato in maniera più coerente e profonda il tema del doppio è sicuramente Douglas Gordon. Riflessi, scissioni e raddoppiamenti percorrono tutta la sua opera del decennio passato, dalle diapositive proiettate di Selfportrait (kissing with scopolamine, 1994) alle stampe fotografiche di Tattoo (for reflection) e Monster (1997).
Ma a scandire significativamente il percorso di Gordon nel terreno del doppio sono alcune installazioni video realizzate con found-footage cinematografico, sulle quali si concentrerà questa breve analisi. Si può parlare di percorso, proprio perché esse disegnano una traiettoria di progressiva complicazione e trasformazione del tema: il suo sviluppo va di pari passo con quello del procedimento compositivo e dell’installazione delle opere, istituendo una sorta di dinamica della dissociazione.
Confessions of a justified sinner (1995-’96) combina il titolo del romanzo di James Hogg (1824) con la trasformazione di Jekyll-Hyde nel film di Reuben Mamoulian (1932): la stessa scena è proiettata su due schermi affiancati, su cui si alternano positivo e negativo dell’immagine. In questo caso il doppio è interpretato come scissione, come sdoppiamento; se si pensa che allo stesso giro di riflessioni appartiene il video del 1996 che valse all’artista scozzese il Turner Prize, in cui al paradigma di Stevenson si sovrappone il testo di Laing sull’interpretazione della schizofrenia (A divided self , 1968), si capisce come questo sia effettivamente per Gordon il punto di partenza.
Douglas Gordon - Left is right and right is wrong and left is wrong and right is right 1999
In Through a looking glass (1999) il doppio è invece ottenuto attraverso una dialettica sapiente di sdoppiamento e raddoppiamento: la schizofrenia, fino a tre anni prima ancora illustrata e descritta, si fa qui letterale e leggibile negli scarti tra immagine e suo riflesso. Mentre il Robert De Niro – Travis Bickle di Taxi Driver (1976) minaccia l’altro se stesso, lo spettatore viene agito da questa geometria temporale, sperimentando come Alice il passaggio (continuo) da una dimensione all’altra.
Left is right and right is wrong and left is wrong and right is right (1999) definisce questa evoluzione, giungendo al raddoppiamento totale. Il riflesso dell’immagine è ottenuto attraverso la separazione di tutti i fotogrammi che compongono il lungometraggio Whirlpool (1949) di Otto Preminger: pari e dispari si dividono, la colonna sonora subisce un trattamento analogo, e l’effetto è stroboscopico, allucinatorio, ipnotico come la storia da cui parte. Il risultato è forse un po’ cerebrale, ma comunque affascinante.
È interessante notare come il cinema sia, per Gordon, il luogo non unico ma almeno privilegiato di esplorazione del doppio: innanzitutto, la dissociazione come argomento implica -forse necessariamente- l’uso del ready-made, l’interdizione della produzione di primo grado; tra gli infiniti possibili ready-made, il cinema è forse quello ideale, dato che è esso stesso un doppio, la realtà seconda. In questi rispecchiamenti rimane forse intrappolato un frammento di ciò che Stevenson cercava di fissare sulla pagina nel 1886, nove anni prima del cinema: “Per quanto vivessi una duplice esistenza e giocassi su due fronti, non ero assolutamente un ipocrita. Tutte e due le mie parti facevano dannatamente sul serio…”. Douglas Gordon - Through a looking glass 1999
A questo proposito va detto inoltre che la preferenza generalmente accordata al bianco e nero s’inserisce in una precisa riflessione dell’artista sul rapporto tra cinema e realtà: “…il riferimento al bianco e nero è ovvio, voglio dire che per la gente è facile l’associazione col film. C’è questa idea che il bianco e nero, in un certo senso, possa avere un impatto maggiore delle strategie che ricorrono al colore in modo iperreale” . Se Roland Barthes, a proposito della fotografia, parlava del colore come di “un’intonacatura apposta successivamente sulla verità originaria del Bianco-e-Nero”, e Fredric Jameson concepisce la riproduzione a colori come traduzione del presente perpetuo del postmoderno, per Gordon e per molti artisti della sua generazione il bianco e nero si collega ad un’idea ancora una volta finzionale, parallela alla realtà.
L’artista ha ben presente le condizioni storiche fondamentali degli anni Novanta riguardo a produzione e percezione estetica: “Penso che la differenza tra la nostra generazione e le altre sia che non è nemmeno un flusso di immagini quello con cui dobbiamo confrontarci, o un flusso di informazioni, ma un diluvio…” . Il modo di questo confronto consiste nel separare alcuni contenuti dal resto delle informazioni, nel montarli e nel renderli percepibili sempre e solo come frammenti; una strategia del genere, oltre a riferirsi ad una ormai lunga tradizione di prelievo ed appropriazione, può essere utilmente messa in rapporto con la nozione profetica di “ricezione nella distrazione” elaborata da Walter Benjamin nel 1936: “Attraverso la distrazione, quale è offerta dall’arte, si può controllare di sottomano in che misura l’appercezione è in grado di assolvere compiti nuovi. (…) La ricezione nella distrazione, che si fa sentire in modo sempre più insistente in tutti i settori dell’arte e che costituisce il sintomo di profonde modificazioni dell’appercezione, trova nel cinema lo strumento più autentico su cui esercitarsi”.



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