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Architettura della catastrofe: una nuova generazione di progettisti giapponesi si interroga sul senso della riqualificazione
Architettura
Fino al 5 ottobre è possibile visitare Make do with now. Nuovi orientamenti dell’architettura giapponese ospitata nel Teatro dell’architettura dell’Università della Svizzera italiana di Mendrisio. Si tratta di un’interessante ricognizione curata da Yuma Shinohara sullo stato della progettazione architettonica in Giappone dopo il terremoto e la conseguente catastrofe nucleare di Fukushima del 2011.

Un anno spartiacque per il paese asiatico che si trova nuovamente a fare i conti con la fragilità dei propri modelli socioeconomici e con la necessità di un ripensamento radicale anche dell’architettura. Il progetto appare come sismografo delle trasformazioni e dei necessari cambiamenti nelle pratiche architettoniche. A misurarsi con queste condizioni della progettazione è una nuova generazione di architetti accomunata, in una molteplicità di strategie e tattiche progettuali, dal vivere il postcatastrofe. La mostra condensa questa pluralità linguistica e operativa rivelando come l’apparente marginalità di una generazione emergente di architetti possa indicare nuove, possibili traiettorie per la progettazione architettonica globale al tempo della crisi ecologica e umana planetaria.
Al di là delle risposte tecnocratiche che sembrano segnare la visione di molti architetti presenti nella Biennale veneziana curata da Carlo Ratti. Torna alla mente l’indicazione operativa di bell hooks, attivista, educatrice che nel suo Elogio del margine. Scrivere al buio invita gli operatori culturali a dare voce e visibilità a prospettive e esperienze emarginate spostandole al centro del discorso pubblico e del pensiero critico. È, forse, questo l’ambizioso obiettivo della mostra ospitata, non dimentichiamolo, in una istituzione accademica d’eccellenza aperta ai fermenti più sperimentali della cultura architettonica internazionale. Nell’allestimento di Make do with now sono stati coinvolti gli stessi studenti, chiamati in presa diretta a confrontarsi con la densità narrativa del curatore orientata a fare emergere i cambiamenti di riferimenti programmatici rispetto alla tradizione architettonica giapponese della modernità. Dal costruito al riuso, dalla forma alla molteplicità, dalla staticità funzionale all’impermanenza. “Occorre ripensare tutto” è il monito che emerge dal grande tavolo/piazza installato al centro del Teatro. Plastici, disegni, fotografie documentano interventi di piccole trasformazioni dell’esistente, di recupero di spazi e materiali che si aprono a possibili e vari utilizzi quotidiani. Dal residenziale vincolato si passa al quotidiano aperto, contaminato nella sua fruizione in cui lo spazio del privato si a relazioni più condivise e imprevedibili. Dal tè al club. Dal lavoro allo svago.


È emblematico, in questa direzione, l’intervento di Kanji Wada/Lunch!Architects. Abitare l’imprevisto attraverso alcuni spazi vuoti che punteggiano l’intervento complessivo. Un invito, un segno di vuoto che indica come la creazione di spazio, di architettura, passi, soprattutto, dall’attivazione di relazioni, le più varie possibili, senza nessun vincolo normativo e funzionale. Gli architetti giapponesi postcatastrofe si trovano, quindi, a misurarsi non tanto con il tema della costruzione del nuovo, quanto con il ripensamento dell’esistente, di spazi sottoutilizzati o insignificanti nella loro identità architettonica. Da demiurgo, l’architetto si fa agopuntore. Interviene sul paesaggio, non necessariamente urbano, anzi molti progetti in mostra testimoniano uno spostamento verso il Giappone più rurale, in maniera non invasiva riprogrammando, ri-attivando il costruito già esistente operando in stretta connessione con l’intorno, con il contesto anche naturale.
È questo un aspetto originale e caratterizzante di questa nuova generazione di architetti come sottolineato dalle parole del curatore Shinohara: «La nuova frontiera dell’architettura giapponese non è più la mitica tabula rasa del sana-chi (terreno vuoto) ma la grande quantità di edifici sottoutilizzati». Il postcatastrofe proietta, dunque, il linguaggio architettonico a confrontarsi in maniera sempre più radicale con il cambiamento climatico e le conseguenti diseguaglianze economiche, come emerge da alcuni interventi di natura pubblica come scuole, ospedali, residenze universitarie. Uno scenario in cui la progettazione architettonica suggerisce modi e mondi possibili di una convivenza più giusta e ecologica. Il filosofo inglese Timothy Morton, più volte nei suoi saggi ha sottolineato come la catastrofe planetaria sia già in atto e occorra ripensare tutto nella direzione di un progetto di coesistenza simbiotica. Dal dominio estrattivista alla coabitazione delle differenze. Questa direzione emerge sottotraccia da Make do with now attraverso i tanti progetti in mostra raccolti, anche in un utile e dettagliato catalogo.


