24 aprile 2006

architettura_interviste Luce chiara camera oscura – parte II

 
Un’installazione per un’archistar. L’intervista a Stefano Mirti continua distinguendo tra macchine fatte per funzionare e macchine fatte per sognare. Lasciamo quindi ai fratelli Savi la loro Uno bianca, e immaginiamoci Kazujo Sejima su una bella Due Cavalli…

di

City of girls, l’allestimento del padiglione giapponese alla biennale di Venezia del 2002 di Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa. Un intervento minimo: alberi drappeggiati in bianco e griglie fittissime di margherite. Pensato per rendere il padiglione the living enviroment of girls
Sul padiglione di Sejima sono un po’ impreparato. All’epoca vivevo in Giappone e mi perdetti il suo gingillo alla fuksobiennale. La Sejima è in assoluto uno degli architetti più bravi da quindici anni a questa parte. Amo alla follia i suoi primi lavori, quelli dove non funzionava nulla e capivi che la signorina lavorava solo (anche lei) per la foto da mettere nel Croquis. I dettagli non erano approssimati, erano inesistenti. Bellissimo. Grande coraggio, una posizione ideologica molto forte e in linea di principio ineccepibile.
Mi ricordo di queste gite a vedere musei improbabili spersi nel Giappone rurale, i pacinko parlor nella piu’ scandalosa periferia di Tokyo. Si andava in giro con la macchina presa in affitto e il Croquis da fare vedere agli indigeni. Poi arrivavi e l’edificio che era stato completato da neanche tre mesi sembrava un tempio Khmer o il tempio E di Selinunte.

Parlando con lei recentemente a Vicenza, ci è sembrata sollevata all’idea che i suoi edifici durassero non più di trent’anni.
Edifici che dovrebbero durare trent’anni, che è già un miracolo se ne durano tre, progettati per durare tre mesi, con soluzioni di cantiere che resistono circa tre giorni. Sejima è un genio della narrazione, stare poi a guardare come funziona il giunto è realmente fuorviante. Sarebbe come analizzare 1984 studiando l’uso degli avverbi fatto da Orwell. Soprattutto nei primi lavori, questa storia dei dettagli era realmente impressionante.
SANAA, Museo O, Nagano, Giappone
Perché non è che fossero sbagliati o mal fatti. Erano proprio fatti in modo che l’acqua stagnasse sul tetto piano e dopo qualche ora ti si infiltrasse nel soggiorno. Bellissimo. Nel libro su Yung Ho Chang ad un certo punto lui parla di “macchine per sognare”, contrapposte alle “macchine per abitare”. La differenza è tutta lì. La Fiat Uno era una macchina fatta per funzionare. La Due Cavalli era una macchina fatta per sognare. Che aveva sempre un qualche guasto, che d’inverno per farla partire dovevi girare la manovella come in un film di Stanlio e Ollio. Però intanto sognavi. Non a caso i fratelli Savi, dovendo mettere su la loro piccola attività di dopolavoro partono dalla Uno bianca, mica dalla Seicento Multipla (altra “dream machine” di prima classe).

I tuoi “bellissimo” assomigliano al kawaii!! (cariiino!) delle teenager giapponesi. K. Kioke , curatrice di City of girls, definendo il concetto dell’installazione diceva: “L’istinto e il tatto delle ragazze hanno sempre inseguito la bellezza pura. Quando affermano che un adulto è brutto, innanzi tutto rivelano la loro reazione fisica nei confronti di un corpo, di un respiro, o di una voce…”
No. I miei “bellissimo” non sono frutto dell’istinto e del tatto. Sono più o meno frutto di ragionamento. In un mondo in cui tutti ragionano sulla funzione e la praticità, avere un manipolo di agenti agitatori che dedicano energie a farmi sognare non è cosa da poco.
La prima Sejima era una coltellata alla schiena a generazioni di architetti noiosissimi che passavano la vita con l’artigiano e l’ebanista. Quella attuale è brava ma non è più un personaggio da film di fantascienza, non è più la Barbarella cogli occhi a mandorla che ci faceva sognare così tanto. La Sejima attuale è come Cassano al Real Madrid che mette la testa a posto. Che si allena, studia fino al diploma, dice cose sensate e gioca per la squadra…
SANAA, allestimento per il padiglione giapponese, 8° biennale di Venezia
Adesso i suoi edifici funzionano anche tecnologicamente. Io rimpiango i tempi in cui il museo/padiglione con le pareti a specchio rotanti non riuscì neanche ad inaugurare (venne chiuso per restauri ancora prima!). Un museo che va in restauro prima di inaugurare. Un film di Bunuel fatto in guisa di architettura costruita. Mancava solo l’asino che passava tra un pilastrino metallico e il setto a specchio e poi il gioco era perfetto.
Tornando a Sejima il suo edificio più spettacolare era il mediacentre di Gifu: nulla aveva mai funzionato dopo le foto. I giap, non potendolo usare come mediacentre, l’avevano trasformato in garconniere per i ricercatori stranieri che soggiornavano a Gifu. Il ricercatore tedesco che ci viveva era spezzato dentro. Tre mesi nell’edificio di Sejima e sembrava uscito da Brazil…

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luca ruali
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