18 maggio 2006

architettura_interviste Luce chiara camera oscura – parte III

 
L’ennesima installazione firmata da un’archistar. Si conclude l’intervista a Stefano Mirti partendo da un’installazione urbana di Nox. Che vince ma non convince. E riporta alla mente il portinaio dello zio. Cosa c’entra? Leggete un po’...

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Stefano, chiudiamo la nostra chiacchierata con il d-tower di Nox. La “torre di quartiere” che cambia colore assieme all’umore dei cittadini…
Mah… In tutta franchezza, citando Fantozzi: “Il d-tower di Nox mi sembra una cagata pazzesca”. Ecco, lì vedi quello che non ci arriva. Quello che guarda le foto delle installazioni di Sejima, l’hybrid muscle di Chang Mai e crede che siano cose vere, che le abbiano costruite, che la gente ci abiti davvero. “Ma no. Erano foto, erano giochi di specchi… Zuzzerellone, cosa credevi?” E allora lui si mette lì e fa una roba che sarebbe spiritosissima in un racconto di Ray Bradbury, ma che poi, costruita, lascia un po’ perplessi.
I Nox sono bravi, per carità. A Pechino alla Biennale di Architettura dell’anno scorso avevano realizzato un lavoro pazzesco. Cento operai a piegare e tagliare il compensato per generare uno spazio avvolgente. Un cantiere aperto notte e giorno. Era dai tempi della lunga marcia di Mao che in Cina non si vedeva una cosa simile. Sono progetti che però non mi fanno scattare alcun click. Non capisco il livello narrativo. Che cosa mi vogliono raccontare e far capire.

Philip Nobel, nel libro sul processo di ricostruzione a Ground Zero (Sixteen acres), usa una definizione riferendosi alla brutta figura rimediata dalla proposta del gruppo di Greg Lynn: “insulsa sciccheria digitale”. Comunque questo tipo di ricerca, attraverso le riconsiderazioni tecniche che pare sollecitare, può forse ridurre le distanze tra architettura e design?
Nox, d-tower, Doetinchem, Netherlands, 2004

A ridurre le distanze tra architettura e design ci aveva già pensato in maniera perfetta Charles Eames. Era il 1947 e con la costruzione di casa sua a Pacific Palisades aveva perfettamente sovrapposto il design industriale all’architettura. Da questo punto di vista, Greg Lynn non aggiunge nulla. Anzi. Non essendo in grado di costruire alcunché, possiamo dire che la sua ricerca non mi è chiaro dove conduca. Almeno i Nox costruiscono, fanno esperimenti, si affinano, migliorano. E prima o poi arriveranno a costruire il loro bel grattacielo ondoso.

Cosa vuoi dire?
Per dire, il portinaio di mio zio aveva fatto una riproduzione in scala uno a venti dell’Amerigo Vespucci in fiammiferi svedesi. Mi ricordo che era una cosa che mi affascinava moltissimo. Io avevo sette anni ed ero strabiliato dall’assoluta inutilità del tutto. Ecco, i Nox colpiscono la mia attenzione in questo senso (non completamente positivo, diciamolo…) Entri in questo spazio a Pechino e dici: “Caspita che lavoro”. Fai toc toc sul legno, ti sposti un pochino di qui, un pochino di là. Poi esci per andare a mangiare e dopo il terzo boccone di anatra alla pechinese ti sei già scordato tutto.
I Nox sono dei virtuosi della lima e del flessibile, ma oltre l’onda di medium density non mi sembra ci sia granché.
Round Blur, Corso Unione Sovietica e Strada D. Drosso, Torino. Architetti: nicole_fvr / 2A+P architettura
Beh, siamo alle conclusioni…
Un’ultima cosa vorrei dire a proposito dell’installazione City of Girls della Sejima per il padiglione giapponese all’ottava biennale di Venezia. Che di quel genere lì (robe meravigliose un po’ fragiline), la scorsa estate ho visto una rotonda urbana realizzata da 2a+p a Torino. Al capolinea del tram numero quattro. Un tondo di asfalto bianco, con centinaia di fiori catarifrangenti. Bellissimo.

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luca ruali
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