06 dicembre 2007

architettura_opinioni È nata (da tempo) l’archiscultura

 
Dove va l’architettura contemporanea? È davvero senza guida? Prima di preoccuparci di questo, dovremmo reimpostare i termini della dialettica fra passato e presente, conservazione e innovazione. E rifondare l’autonomia del giudizio estetico. Solo dopo potremo giudicare se Celentano, nella sua filippica contro gli architetti, aveva (un filo di) ragione...

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Ci ha pensato Adriano Celentano a gettare finalmente il sasso nello stagno di un dibattito culturale strisciante, troppo spesso pregiudiziale e ideologico: quello sull’architettura contemporanea. È bastato poco, quindi, per scatenare o, meglio, per portare alla luce il flusso delle polemiche su quale debba essere la mission dell’architettura e sui nuovi canoni del bello, a cavallo fra urbanistica, arte e politica. C’è da scommettere che in breve tempo l’intera questione sarà nuovamente inghiottita nel lavandino (otturato, quello di Celentano e di tutti noi). Ma il momento è propizio per cercare il confronto su un tema tabù, il rapporto fra antico e moderno, passato e futuro.
L’Italia, per sua stessa natura, è destinata a vivere la crisi, la mutazione dello stile architettonico, più come conflitto che come dialogo: il passatismo, che non significa necessariamente atteggiamento di chiusura nei confronti del moderno, è comunque l’abito mentale più comodo, spontaneo e perfino redditizio. La conservazione del patrimonio artistico rischia di diventare troppo facile argomento contro l’innovazione e lo sviluppo di nuovi linguaggi comunicativi. Non vale solo per l’architettura, ma per il mondo dell’arte in generale, che non vede più la presenza di importanti protagonisti italiani, né sul lato della produzione né della promozione.
Tuttavia, l’architettura è la disciplina più invasiva nei confronti della vita quotidiana, e quindi avversata più o meno apertamente. Purtroppo, nel dibattito si riscontra l’attestazione su punti di vista ideologici, che intendono il modernismo da una parte e la riscoperta e conservazione del passato dall’altra come categorie monolitiche, da accogliere o rifiutare in toto. Renzo Piano - The New York Times Building - 2007 - photo Michel DenancéChi non gradisce lo sperimentalismo tipico della nuova architettura non attacca su questo fronte, quasi avesse paura di addentrarsi in una discussione sull’estetica: si arrocca sulla difesa dell’esistente, sulla contaminazione velenosa di qualsiasi innesto moderno, infestante di per sé. Chi invece -quasi sempre gli stessi architetti e comunque gli addetti ai lavori- si pone a favore della ricerca di nuove sintesi e nuovi linguaggi, all’insegna di parole d’ordine come innovazione, futuro, competizione (e facilmente si sfocia nell’economia e nella politica), lo fa in virtù di un’incondizionata fiducia nelle “magnifiche sorti e progressive”, guidato da un neo-positivismo applicato all’arte o da un inconscio desiderio futurista di staccare con il passato.
Un dibattito in questi termini è parziale e non aiuta la maturazione delle posizioni né degli uni né degli altri. Se si parte dai casi concreti e si analizza la tendenza univoca dell’architettura contemporanea, soprattutto nell’ultimo decennio, si potrà facilmente individuare l’abitudine a trattare l’opera nella sua singolarità, rivestendola di un autonomo valore artistico dato dall’idea, dall’immagine. È quello che si potrebbe chiamare l’archiscultura, in quanto l’opera scultorea vive da sola e non ha bisogno di contestualizzazione. In tal modo, un grattacielo (o anche un museo o un auditorium come quello di Roma) è bello per la sua forma, e poco importa di come si impone sullo skyline di una città. Per questo le metropoli asiatiche sono una giungla di palazzi imponenti e dissociati, eccentrici e spaventosi, mentre New York, prodotto felice di una stratificazione di stili sin da metà dell’Ottocento, è il miglior esempio di modernità funzionale e corale, in cui l’effetto d’insieme, il disegno complessivo superano la dignità della singola opera.
Certo, anche l’ultima architettura contemporanea può essere pensata organicamente, come pare accada nella zona est di Londra fino ai docks, cioè in progetti che mirano a cambiare un intero profilo di città, non un punto. La proposta di Zaha Hadid Limited per il concorso BetileTuttavia, oggi è più difficile, anche perché le città si espandono a partire dalle periferie e le zone decentrate si prestano meglio alla funzione museale di destinazione asettica dell’opera; e in Italia è ancor più difficile, per le ragioni già espresse.
Quando Vittorio Sgarbi parla della “vanità del modernismo architettonico”, intende probabilmente la tendenza al protagonismo dell’architetto, che sempre più si sente un artista (anzi, un archistar, architetto artista star) e quindi sempre più autorizzato a stupire. L’opera è spesso il parto estemporaneo di un’idea, punto. Bellissimi palazzi possono innestarsi male nel tessuto urbanistico, e la nuova sede della Bocconi, nel mirino di Celentano, pare non essere neppure un bel palazzo. Insomma, bisogna recuperare autonomia di giudizio estetico e valutare empiricamente le opere architettoniche, per come sono e soprattutto come si pongono nell’ambiente circostante, che non è una riserva naturalistica.
Niente di pregiudiziale contro l’architettura contemporanea, quindi, ma neppure si può dire che l’Italia abbia paura di innovare solo perché giudica “brutto” il nuovo grattacielo di Renzo Piano a Torino (la categoria degli architetti è infatti compatta nello sponsorizzare la sua funzione di impulso alla modernità indipendentemente dai progetti). Se il dibattito partirà da queste (nuove) semplici premesse, forse sarà più utile per tutti. E non dovremo più aspettare che Celentano ci suoni la sveglia.

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marco d’egidio

[exibart]

3 Commenti

  1. Arte-OperaCittà – ricerca dell’identità pura, smarrita – come “Stato ideale” – perché opporsi al progetto, previsto da Renzo Piano a ridosso del centro storico di Torino?

    «Comunicazione»
    di
    Vittorio Del Piano

    «In ogni modo, l’opera d’architettura verticale dello stupendo grattacielo per me è affascinante, ma prediligo fortemente di più il Trullo (dal greco tardo τρουλλος, cupola) costruito, terra terra, ancora oggi in pietra dal “mastro trullaro” pugliese come casa in cui “abitare, vivere e pensare”».

    Ecco perché…
    intervengo per la “critica” di Lucia (Exibart.com, 03/04/2008”). Mi pare che la sig.ra “Lucia” non scriva corbellerie. Alla fine al suo intervento ricorda Antonio Cederna (e Le dico brava!), le discipline che in un tempo relativamente recente abbiamo inventato, gli studi storici, le scienze dell’antichità, l’archeologia, la
    storia dell’arte, l’estetica ci impongono, “se vogliamo veramente essere moderni e civili, di rispettare le testimonianze della storia, di fare cioè quanto non è stato possibile in passato”. Anche questo è il punto, è una validissima ma non specifica ragione per la quale uno debba opporsi al grattacielo. L’immagine della Città (la bella vista con la “Mole antonelliana” con quell’immagine delle Alpi sul fondale), è l’immagine pura che non può essere “obliterata”; ha ragione anche su questo punto Lucia.
    È dal 1973 che io vado ancora sostenendo: “La città se non è per l’uomo non è città / lo spazio urbano deve essere strutturato esteticamente/”. L’immagine presuppone una lettura con l’intervento della nostra percezione, ed esiste un livello di lettura delle immagini, dei significati profondi e cosa esprimono attraverso le barriere delle diverse culture e nelle varie articolazioni del linguaggio visivo. Vediamo che il mondo contemporaneo presenta una gran quantità di vari materiali iconografici, una vasta produzione d’immagini e di forti sollecitazioni sensoriali – visive, auditive, tattili – e sotto il nostro sguardo quotidiano si combinano, con l’enorme influenza che generano su tutti per le diverse virtù e caratteristiche dell’individuo e secondo la natura propria di molte immagini. Lo stesso dicasi per i segni urbani sul territorio già strapieno che, se fosse un tetto, tutti i collassi ci mostrerebbero le macerie del suolo, mentre sono incombenti altri collassi per il troppo «pieno». Ha ragione Gilllo Dorfles con il concetto dell’ “Horror Pleni”: nel suo ultimo bel libro ha centrato con la definizione della “(in)civiltà del rumore”, il nostro contemporaneo modo di vivere, volenti o nolenti.
    La stessa città, oggi, può far “rivivere” l’opera dell’artista nel terzo millennio, per le mutate/mutanti esigenze con quell’arte che deve tessere quotidiani rapporti con la realtà dell’uomo, nello spazio del cielo, della terra e del mare della sua città, in ogni parte del mondo, senza dover alterare i processi esistenziali di ogni essere vivente e né aggravare l’esistenza economica ed estetica del presente.

    Progettare oggi…
    l’“opera” d’arte: perché finisca in un “museo” non ha più senso metterla in “teca”, ma “farla vivere” si. Concepire l’arte per la coesistenza dell’Uomo e della Città ha senso per il presente e per le generazioni future. Il destino dell’arte, perché sussista, non come un “quadro opera” con l’uomo, è farla esistere – sapendo comunicare l’espressione dell’invisibile con l’immagine e il comunicatore è: l’artista puro – come “OperaCittà”, coesistere nella Città e “visibile” come tessuto cellulare puro (e cellula-moltiplicata o moltipiclicabile…), nel suo «spazio urbano», proiettandovi (un unicum “materiale” amalgamatesi con quelli delle altre arti), la percettibilità pura dell’artista della “Città-Opera di Medi-terra-nea” generatrice dello spazio estetico «OperaCittà» del presente e dell’oltre percettivo. Il vettore più puro (immateriale) possibile, deve essere fortemente collegato all’evolutivo sviluppo dell’afflato spirituale dell’Artista-Puro dotato di sensibilità Mediterranea (la Città dell’’Arte Pura). Non è finita l’epoca dei “dispendiosi” musei, anche con costose spese di gestione, come per le verticali “macchine architettoniche” – i grattacieli – (grandi contenitori di tutto: super-mercati, alberghi, vasti saloni, camere, appartamenti, ristoranti, tavole calde griffate, bar, piscine, night, uffici, banche, miniboutique, cinema & teatri, biblioteche, gallerie d’arte, ristoranti, palestre, box office, box auto, ecc., anche se resta segnato nella nostra memoria collettiva quel tragico 11 settembre di New York. Resta indicativo ancora il caso della città di Brasilia), ma li ritengo superati come oggetti e segni urbani nella città d’oggi. Però devo ricordare: proprio il critico, l’esperto d’arte internazionale Pierre RESTANY (…nel 1968, chiuse a Parigi le porte della Galleria d’Arte Moderna… un segno purissimo esteticamente per affermare che, l’arte vive se è nella città), ancora una volta, in una delle sue ultime conversazioni con me sull’arte, mi rivelò che la Corea oggi è il Paese più aperto per la ricerca e per lo sviluppo del futuro dell’arte contemporanea più avanzata” e mi confermò quanto aveva già espresso in una sua nota ultima intervista rilasciata ad un quotidiano: l’artista è un “comunicatore” come “artista-autore“ della CittàOpera, e la CittaOperaMuseo è il luogo degli accadimenti delle nostre azioni e della comunicazione con il linguaggio dell’architettura. Credo fortemente in questa bella visione cosmica, dinamica e pura, scaturita dal colloquio con l’indimenticabile Pierre Restany.
    Bisogna prenderne coscienza in tutti i sensi, maggiormente ora anche per l’accentuarsi dei caratteristici e chiari segnali di crisi economica provenienti da più parti del mondo e che, ogni prudente e sensibile politica culturale deve poter riconoscere, capire e, inoltre, deve considerare ormai finite molte delle originarie funzioni legate ad un “museo tradizionale”, oramai (obsoleto). Mentre dovremmo rivolgere le nostre attenzioni alla città: martoriata dal traffico, dai tanti e forti inquinamenti sonori, da quelli visivi dell’archi-tettura del post-modernismo kitsch, con concetti apparentemente nuovi, ma “scaduti”, replicata – pur se superata – per il forte potere della “globalizzazione estetica che è figlia della globalizzazione economica” e che la potenza diabolica dei mass-media ha contribuito a creare con i corti-circuiti massmediatici con scorie in eccesso, soppiantando molte attività culturali. Ormai occorre sviluppare celermente e più soddisfacentemente ogni funzione vecchia e nuova da offrire ad ogni grado educativo per la socializzazione di massa all’arte (interferendo nell’“Arteidentità”). Per evitare ogni successivo degrado della città, la stessa potenza espressiva “pura” dell’arte va utilizzata in tutti gli ambienti inquinati dagli insensibili (imbonitori e falsificatori del gusto estetico puro), per tenere allenata la sensibilità nella mente e nel cuore di ognuno di noi.

    Lo spazio urbano…
    deve essere strutturato esteticamente per i nuovi apporti percettivi al mondo della Città Contemporanea. Ci vuole la fede profonda della sensibilità mediterranea per la nuova città dell’uomo, che salvaguardi la purezza dell’atto creativo, ne tuteli l’espressività e la comunic/azione “pura”, ne esalti la libertà; bisogna tendere ad un naturalismo estetico nuovo che salvaguardi quella forma d’Arte Pura più vicina all’uomo e che riesca ad essere l’energia di quell’estetica ideale architettata come “opera” nella Città e con la Città, per far sì che (l’azione sensibile) l’operazione combinata “Arteopera”, “Cittaopera” dell’arte pura, si formi e si enuclei permanentemente nell’esistenza dell’uomo e nella vita sociale della sua Città tendente verso l’estetica generalizzata. Desidero rifermi al progetto – del Groninger Museum, Groningen, Olanda – di Alessandro e Francesco Mendini, un esempio di come un’opera d’architettura deve avere in sé l’originalità ideativa progettuale dello spazio urbano interpretato e strutturato esteticamente nella Città…– “Arte-immagine-visibile- espressione dell’invisibile”/crisi e fine del museo tradizionale. Occorre tendere al “Museocittà”/opera in divenire – “Museopuro-MuseoCittà”/arte da fruire, “Arteopera” /Museo Nuovo-Città Nuova con cui comunicare, “Arte-Pura”/artista-comunicazione-superazione-naturacultura, “Spazio urba-no”/Museo-arteinvisibile-visibile come architettuura-comunicazione, “Artericerca”/ricerca della bellezza primordiale della terra madre…, “Arteidentità”/ricerca dell’i-dentità pura smarrita… – così mi pare che voglia rifererirsi, con sensibilità e criterio, anche l’intervento di “Lucia” (di Torino) quando scrive: “gratta-cieli, se si vogliono fare, li si faccino nelle remote periferie dove potrebbero, forse, contribuire anche alla riqualificazione urbana. Ma penso che lì non ci sia alcuna convenienza – né di immagine, né di rendita immobiliare”. A Renzo Piano, noto architetto, noi – di MediterraneArtePura – desideriamo dire che non ce l’abbiamo con quelli che all’università e all’AA.BB.AA. insegnano a ragazzi di vent’anni a diventare artisti, che li lanciano subito verso gesti eclatanti, alla ricerca dell’ispirazione (dell’idea sensibile); lo trovo non spaventoso (come egli ha dichiarato), ma fortemente giusto. Penso invece che, dal punto di vista educativo, sia molto meglio coltivare in loro la curiosità di pensare, ideare e fare opere originali, fornendo loro al contempo gli strumenti dell’imterpretare, capire e inventare, e non di replicare l’esistente.

    Desidero anche far sapere a Renzo Piano…
    che, sono d’accordo con lui quando sostiene: “L’architettura è come un iceberg dove la parte visibile è dieci volte più piccola di quella che non vedi, che dal basso la sostiene. Affonda le sue radici nell’an-tropologia, nella sociologia, nell’economia, nella scienza, nella storia, nella memoria, e poi ovviamente nella poesia, nell’espressione artistica”. Rispetto le sue valide idee e i suoi progetti realizzati – con altis-simi costi, ma l’impresa è impresa non può lavorare sotto costo… altrimenti fa andare in fallimento i piccoli imprenditori e la concorrenza – “visivamente belli”, però per la sua memoria (1), vorrei richia-margli alla mente la città di Bari e il suo stadio, “Stadio San Nicola” – firmato appunto da Piano –, dove una vasta zona archeologica pare sia stata d i s t r u t t a all’epoca della costruzione del suo “progetto” – valido si come idea, ma pare “copiata” (2), (ed anche per la “pianta ellittica” pare si sia ispirato al bel Colosseo), ma nemmeno debolmente innestato alla Città… perché? Poiché la città la intendo come Pierre Restany e anche come Alessandro Mendini (3), aggiungo ancora: il “San Nicola poteva contenere costru-zioni sociali, culturali e altre del tempo libero ecc. ed essere una ”architettura-urbana” anche “dentro” l’«immagine visibile invisibile» della «Città » sita ad una quota più bassa rispetto a quella dello stadio, e (forse) avrebbe raggiunto migliori risultati salvaguardando tutte le testimonianze archeologiche (con un piccolo parco archeologico aperto). In ogni caso rimane un progetto “ancora utilizzabile…” ma, come? Data la velocità di come va la visionica oggi della comunicazione e della immagine nel mondo. E – per l’attraente grattacielo – come non posso essere d’accordo con Renzo Piano quando nell’intervista dice: “Come la scrittura, anche la città per essere leggera deve essere pensata con una giusta armonia tra spazi costruiti e spazi vuoti, elementi di discon-tinuità, che permettano di alternare segni forti e momenti di silenzio”. Anche «Lucia e Renzo», però, devono essere d’accordo con me che l’architettura come “Arte-Pura”, deve essere COMUNICAZIONE/ARTE nella “OPERA/Città” e lo «Spazio Urbano» va interpretato… non va «violentato», per l’uomo d’oggi e per quelli di domani. Infine, vorrei concludere con un verso del Nobel Salvatore Quasimodo: – “Dalla notte che verrà avrò speranza” e con una frase di Giulio Carlo Argan: “La cosa più bella al mondo è capire” – ricordando il mio concetto già precisato nella mostra «15 Tracce di operatori in Puglia» (Pinacoteca Provinciale di Bari, 1973): “Lo spazio urbano deve essere strutturato esteticamente” e va interpretato e non violentato, con le ristrutturazioni e gli sventramenti selvaggi, con le sopraelevazioni abusive, con l’espansione “progettata” e (in)controllata delle zone d’espansione o residenziali speculative fuori città”. E’ da ricordare anche l’accidente «delle case Perotti» alla fine del lungomare di Bari, abbattute (qualche anno addietro) col tritolo come quelle nel Comune di Cesano Boscone (Milano fine Anni 60), ecc, e non è tutto qui.
    Come possiamo far funzionare questa macchina-grattacielo di ultima generazione rispettando lo spazio urbano… ma diciamo anche il «deus loci»? Quale punto d’incontro tra artisti-architetti-designer (con arti e tecniche nel dibattito internazionale), in un momento critico dell’innovazione e dell’aggiornamento delle varie tendenze? Abbiamo la capacità far funzionare meglio tutto l’organismo città e anche la qualità della vita dell’uomo? Il mio pensiero ritorna a quell’Hippodamos di Mileto, in ciò che sosteneva con gli antichi greci (4), le testimonianze di quella civiltà sono ancora visibili nell’intero territorio della Magna Grecia e non ancora tutte studiate e comprese. In ogni modo, l’opera d’architettura verticale dello stupendo grattacielo per me è affascinante, ma prediligo fortemente di più il Trullo (dal greco tardo τρουλλος, cupola) costruito, terra terra, ancora oggi in pietra dal “mastro trullaro” pugliese come casa in cui “abitare, vivere e pensare”.

    3 aprile 2008.
    Vittorio Del Piano
    delpiano.artepura@libero.it

    (1). Cfr. La Gazzetta Del Mezzogiorno – 15. 09. 2005 – (…). E’ più difficile è che ricordasse un concorso nazionale per un teatro all’aperto, che si tenne a Pescara nel 1958 e di cui riferì Pasquale Carbonara su «L’architettura. Cronache e storia», la rivista di Bruno Zevi. Eppure nel progetto vincitore (degli architetti Mariano Pallottini, Antonio Castaldi Madonna e Filippo Mariucci) c’è l’anticipazione di un aspetto fondamentale della composizione dell’organismo architettonico di Piano: la divisione degli spalti in due corpi distinti. Una prima gradinata che poggia sulle pareti del cratere artificiale e, al di sopra di essa, separata dalla terra, galleggia nel vuoto la teoria dei 22 petali di differente misura (come previsto in un altro progetto del concorso pescarese). È proprio l’idea di staccare l’edificio dal suolo, sospenderlo sulla linea dell’orizzonte quasi in un armistizio con le leggi della gravità, ciò che induce il critico francese Jean François Pousse a definire lo stadio barese «Il grande soffio» (…).
    (2).Ibidem. (…), Si è detto che lo stadio barese è stato «copiato» da quello tunisino di El Menzah, costruito nel 1967. Ma la somiglianza non va oltre la suddivisione degli spalti in settori. Una soluzione analoga era già stata adottata da Gino Valle nel 1971 per il progetto (non realizzato) dello stadio di Udine, strutturato «come sommatoria e giustapposizione – scrive Pierre-Alain Croset – in una monografia di Electa – di singole unità di 800 spettatori (?) un modulo che consenta una grande flessibilità di realizzazione».(…).

    (3). Cfr. Alessandro Mendini, “Museo all’aperto”, 2007 – Atelier Mendini. «La città può essere letta, vissuta e interpretata come un “museo all’aperto”. La scena urbana ha un obiettivo preciso, consiste nel progetto del bello e delle forme degli spazi pubblici. A questa utopia del bello nella città ci riferiamo con l’idea di andare oltre all’idea tardo funzionalista dell’arredo urbano. Le piazze, le strade i mercati, le passeggiate e i loro allestimenti vanno considerate come opere estetiche, come spezzoni di teatro esterno dotato di senso emotivo e antropologico, adatti a coinvolgersi profondamente con gli abitanti, ad essere dei palcoscenici per i cittadini. L’architetto, il designer, l’artista, lo scenografo, il grafico, il progettista delle luci, sono gli operatori di queste opere integrate, siano esse grandi o piccole. Per trovare la sua motivazione profonda, la radice del suo essere, il disegno urbano deve attingere e collegarsi a culture precedenti a quelle industriali. In sostanza, l’arredo della città deve porsi come scenografia. Si tratta del preciso genere di un’architettura non destinata a contenere, fatta di quinte, di pavimenti, di chioschi, di singoli oggetti, tutto inteso come opera d’arte: come MUSEO ALL’APERTO. I giardini barocchi, le fontane di Roma, le piazze medievali, gli spazi zen sono i referenti lontani di questo atteggiamento progettuale. E poi la presenza di opere d’arte nella città, un sistema di punti nodali ad alta intensità emotiva, adatti a fare da referenti emblematci per il cittadino che si deve spostare: un patch-work estetico e visivo, ed ancora ripeto: un “museo all’aperto”».

    (4). Cfr. Vittorio Del Piano, “Per la fondazione di Mediterrananea “ – «ASILO-ESILIO», (Manifesto dell’Arte Pura ), 1986. La Città dell’Arte-Pura, documenti. «“Nel bacino del“Mediterraneo” è sorta “la civiltà”(…) Il Mar Jonio“accarezza” le prime città “con un nuovo modello urbano” introdotto da Hippodamos di Mileto: colui che inventò le tracce geometriche delle città…, l’uomo che introdusse l’angolo nell’architettura, negli cambia la funzione di questo angolo. Con Hippodamos l’angolo cambia regole, desacralizzato, egli organizza la città in sistema e stabilisce la residenza umana su di una terra nuova, quella dei matematici, egli non fu solo architetto di genio, fu uno spirito puro, multiforme, un sociologo, un teorico politico, etico e metaforico, un tantino utopista, il primo artista puro. Egli non sottomette alla legge geometrica un tempio o un monumento, ma il disegno stesso o della città, le sue strade, le sue piazze, le sue abitazioni e, i suoi cittadini. E’ colui che impose l’ordine della razionalità alla dimora degli uomini. Ma, oggi sono arrivato a credere anche, che l’uomo non debba essere sempre razionale».

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    © 2008 – by Vittorio Del Piano, Atelier MediterraneArtePura – Grottaglie-Taranto-Nizza.

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