16 maggio 2023

Biennale Architettura 2023: il collettivo Fosbury racconta il suo Padiglione Italia, “spaziale”

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Si concentra su quella dimensione dell’architettura fatta di relazioni sociali, culturali ed economiche; e sconfina da Venezia con 9 progetti site specific, disseminati da nord a sud della Penisola

Fosbury Architecture Foto Luca Campri
Fosbury Architecture Foto Luca Campri

L’idea è che la mostra del Padiglione Italia, dal titolo SPAZIALE: Ognuno appartiene a tutti gli altri, non debba essere solo un luogo di rappresentazione, quanto il pretesto per realizzare azioni concrete, occasioni di progetto in grado di evidenziare le sfide poste dal contemporaneo. Senza l’ambizione di dare risposte definitive, ciascun progetto scelto dai Fosbury Architecture affronta un’agenda incompleta di temi urgenti per l’Italia e la disciplina in generale, cercando di dare riscontri tangibili al di là della retorica. Per questa ragione, i giovani architetti del collettivo hanno riunito pratiche spaziali e “advisor” provenienti da altre industrie creative. Nella convinzione che l’architettura debba confrontarsi con altri saperi, evolvendo per rimanere rilevante. Ecco la nostra intervista, rigorosamente corale, a Giacomo Ardesio (1987), Alessandro Bonizzoni (1988), Nicola Campri (1989), Claudia Mainardi (1987) e Veronica Caprino (1988), un manipolo di curatori che – ne siamo convinti – lascerà il segno nella città lagunare con i loro “anticorpi alla disillusione”.

Quali sono i vostri riferimenti ispirazionali, nell’architettura e non solo?
Anche per commemorarne la recente scomparsa, non possiamo non nominare la storia di Dick Fosbury, atleta timido e fisicamente poco dotato in grado di vincere l’oro olimpico di Messico ’68 cambiando le regole della sua disciplina.

Al tempo – forse in scadenza – delle archistar, voi lavorate nella dimensione del collettivo. Cosa restituisce e cosa toglie questo approccio eterogeneo ed eclettico alla vostra ricerca?
Il lavoro degli architetti è necessariamente collettivo. Il progetto è un tema troppo complesso per essere affrontato da un singolo e sia all’interno dello studio che in dialogo con i progettisti intervengono sempre molteplici attori che inevitabilmente contribuiscono al risultato finale. La differenza nel nostro modo di operare sta forse nell’orizzontalità con cui ci rapportiamo tra noi. L’assenza di rigide gerarchie interne ha necessariamente comportato una minore autorialità in favore di un’attitudine riconoscibile.

South Learning Courtesy LRDS © Giulia Rosco
South Learning Courtesy LRDS © Giulia Rosco

Questo approccio (meno protagonismo, più coralità e collaborativismo) lo considerate un megatrend generazionale necessario nel prossimo futuro?
Il Leone d’Oro del collettivo berlinese raumlaborberlin alla Biennale Architettura 2021 e il Turner Prize assegnato al collettivo Assemble nel 2015 indicano che un trend esiste. Tuttavia, il fenomeno dei collettivi italiani affonda le radici nel periodo immediatamente successivo alla crisi economica del 2008 e, in molti casi, ne rappresentano una risposta. È per questa ragione che emerge in maniera evidente il fattore generazionale. La ricerca di approcci alternativi, in un contesto di crisi permanente, più che una moda è una vera e propria necessità.

Qual è la vostra idea di utilità e responsabilità sociale per l’architettura oggi e nel prossimo futuro di crisi permanente?
Come evidenziato da Lesley Lokko, curatrice della Biennale Architettura 2023, nella presentazione della sua mostra Laboratory of the Future, gli architetti o, per meglio dire, le pratiche spaziali, sono tra i pochi in grado di dare forma a nuove politiche pubbliche e di immaginare diverse forme di abitare. Il settore delle costruzioni è del resto uno dei maggiori responsabili della crisi ambientale e gli architetti devono necessariamente abituarsi a operare in un regime di scarsità.

L’incompiuta in autunno © HPO

Qual è la vostra interpretazione del rapporto tra architettura ed etica? Come si cala nella progettualità quotidiana?
L’architettura è una disciplina complessa, chiamata a rispondere a richieste spesso divergenti: da un lato, la responsabilità nei confronti dell’utente finale, sia esso una comunità o un privato; dall’altra, il progetto, un fragile equilibrio fra qualità e consumo di risorse. In questo quadro, l’ego del progettista deve necessariamente passare in secondo piano. Crediamo che gli architetti debbano farsi mediatori tra queste diverse istanze, sviluppando prassi più consapevoli ed empatiche, che valutino l’impatto del processo di realizzazione insieme al risultato finale.

Voi ragionate spesso sulla città del futuro. Come dovrebbe essere?
È difficile dare risposte esaustive. Vivendo e lavorando a Milano non possiamo non fare riferimento all’emergenza abitativa che sta progressivamente espellendo le classi più deboli, i giovani lavoratori e i creativi. Per non diventare un deserto borghese, la città del futuro dovrà per forza di cose essere inclusiva.

Dettaglio di una pesa usata dai pescatori dello stagno. Foto © Giovanni Galanello

Vi definite un “collettivo di design e ricerca”. In quale accezione vi appassiona lo spazio domestico?
Per diversi anni abbiamo osservato come a una domesticità dilagante in ogni ambito della vita collettiva, dagli uffici-playground allo spazio pubblico gamificato, corrispondesse la mercificazione dello spazio domestico, sempre più un asset economico su piattaforme online. Poi queste osservazioni sono diventate una realtà quotidiana per tutti.

In che modo stanno cambiando lo spazio della casa e la sua rappresentazione?
La pandemia globale ha accelerato la trasformazione dello spazio domestico da luogo privato dove trascorrere il tempo libero a spazio di rappresentazione e di lavoro, costantemente nell’obiettivo della videoconferenza.

Con Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri all’interno del Padiglione Italia, quale immagine dell’architettura italiana intendete restituire in un contesto internazionale come quello di Biennale?
Sin dall’inizio abbiamo immaginato il Padiglione Italia come una piattaforma per dare voce a quella generazione di progettisti, a cui sentiamo di appartenere, che interpreta un approccio alternativo alla disciplina. La fragilità strutturale del contesto italiano, caratterizzato dalla cronica carenza di lavoro e da una sovrabbondanza di progettisti, acuitesi negli ultimi dieci anni, è stata lo sprone per definire pratiche che applicano strumenti e prassi codificate dell’architettura a nuovi campi di applicazione.

L’intervista ai Fosbury prosegue nel numero 120 di exibartonpaper. Scarica la tua copia digitale qui

1 commento

  1. La parola chiave che attraversa arte ed architettura é “Progetto”,come accade oggi per il Padiglione Italia in vista della Biennale 2023. A realizzare nuove realtà abitative concorrono più attori. Si tratta di un lavoro di équipe. La pandemia ci ha portati a lavorare in casa mentre la libertà dal virus fa nascere progetti come quello del museo di Istanbul concepito secondo le idee di trasparenza e fluidità. In altre parole stiamo tornando a riconsiderare l’importanza del rapporto Arte-Natura. Una variante si inserisce in questo meccanismo, la presenza degli stranieri, ovvero l’inclusione come cifra della globalità. Cultura é un lavoro di squadra e può servire a riunire i popoli.

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