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Condivisione e riflessione all’Espacio Escultorico di Città del Messico
Architettura
In un luogo di perenni mutazioni e modificazione topografica, in costante espansione, caotico e – forse – bulimico come la megalopoli di Città del Messico, incontriamo, in uno spazio intimo e apparentemente distante dalla città, sessantaquattro prismi in cemento, posati su un basamento circolare del diametro di 120 metri, che incorniciano un paesaggio unico e ancestrale. L’Espacio Escultorico di Città del Messico, all’interno della Riserva Ecologica del Pedregal de San Angel (istituita dall’UNAM) è risultato, all’unanimità, il vincitore della XXXIII edizione (2023-2024) del Premio Internazionale Carlo Scarpa per il Giardino. Fortemente voluto dall’Università Nazionale Autonoma del Messico – UNAM nel 1979, l’opera necessita di alcune premesse.
Una premessa sul Pedregal: una distesa di roccia lavica, in origine di circa 80 chilometri quadrati e senza alcuna vegetazione, oggi ricca di specie autoctone e una morfologia ben precisa. Durante l’espansione della città, ha visto drasticamente ridurre la sua superficie.
Una piccola premessa storica: quando il progetto dell’Espacio è stato concepito, si inseriva dolcemente all’interno del un vasto piano di riqualificazione politica e culturale che, tra il 1947 (con il primo progetto di Luis Barragan per i Jardines del Pedregal e Diego Rivera con il museo Anahuacalli) e il 1952 (con l’insediamento e l’inaugurazione, nel 20 di novembre, della Città Universitaria dell’UNAM), aveva l’obiettivo di valorizzare e conservare un territorio unico come quello del Pedregal. Interventi successivi si sono protratti fino all’apertura dell’Espacio nel 1979 (come la Biblioteca Nacional, con il mosaico di Juan O’Gorman del 1956 o il murales di Diego Rivera presso l’Estadio Olimpico Universitario).
Fondazione Benetton Studi Ricerche ha poi deciso, come da consuetudine, di costruire una mostra, ospitata nello spazio di Ca’ Scarpa a Treviso, dal 13 aprile al 30 giugno 2024 e curata da Patrizia Boschiero e Luigi Latini con Marcello Piccinini, in cui ricostruisce i diversi livelli di lettura che hanno caratterizzato la ricerca sull’Espacio e le motivazioni che l’hanno portato ad essere il vincitore del prestigioso premio. Uno spazio per la condivisione costituito da quattro livelli.
Al primo livello, un’installazione fotografica con le immagini di Fabian Martinez, in cui è ricostruito un modello dell’Espacio per permettere allo spettatore di concepirne la struttura. Le immagini di dettagli e luminosità differenti ricalca l’attitudine spirituale del luogo e crea un’immersività spontanea.
Salendo nella struttura restaurata da Tobia Scarpa, osservando l’installazione luminosa dello stesso, si arriva alla seconda sezione dell’esposizione: la ricostruzione del processo storico, scientifico, antropologico e culturale che ha portato alla concezione dell’UNAM e alla sua importanza nel panorama messicano. Vengono presentati sia i progetti incompiuti che le immagini d’archivio di quelle strutture fantasmatiche che sono state abbattute o restaurate trasformando l’aspetto originale.
Al piano ancora superiore, cartografie medievali, approfondimenti morfologici, botanici e zoologici sono affiancati ad immagini d’archivio che ricostruiscono l’unicità del luogo scelto dal Premio e, in particolare, la Riserva Ecologica del Pedregal de San Ángel. Infine, nel grande spazio all’ultimo, il documentario di Davide Gambino Pedregal: la storia dell’Espacio Escultórico (2024), che narra di come «Un paesaggio simultaneamente arcaico e contemporaneo, che tra le fessure di roccia lavica e i moduli scultorei di una enigmatica opera d’arte, ingloba una storia millenaria», si legge nelle note di regia dell’autore.
Condivisione, armonia, meditazione sono i tre principi cardine che guidano la natura di un luogo pervaso e attraversato dal flusso di una storia senza tempo. Innanzitutto, un’opera d’arte collettiva, sulla matrice della Land Art, in cui gli autori hanno scelto di non identificarsi. Non sono né un collettivo, né autorialità multiple: lo spazio è di tutti, di nessuno; non appartiene al presente, non appartiene al passato. È come se gli artisti ci stessero dicendo che quei luoghi sono abitati da queste sculture prima ancora che gli si potesse dare un nome. Un significato profondo che ricalca alchimia, astronomia, e pratiche eterogenee alla scoperta del senso per cui ciascun visitatore deve vivere lo spazio con la stessa spontaneità: una riflessione a monte sulla realtà stessa dell’ecologia, intesa come convivenza tra umano e specie altre senza alcuna pretesa di dominio, controllo o sopravvivenza.
La pratica, ormai scomparsa, della comunione e delle comunità. L’assenza del concetto di proprietà è un’ideale a cui non siamo più legati. Per riprendere Erich Fromm, in Avere o Essere, la trasformazione narcisistica ed egoistica della società dei consumi adorniana, con immensi strascichi anche nella società dello spettacolo debordiana e nella società del positivo teorizzata da Han, porta alla scomparsa dell’ideale della collettività. Il possesso – l’avere – soppianta l’esistenza e il senso – l’essere – per alleviare una certa incertezza fondata sulla percezione della vacuità dell’esistenza.
Ed è in questo che uno spazio dedicato alla pura riflessione, collocato in un contesto come quello del Pedregal rimanda alla stratificazione culturale che ha determinato il mutamento progressivo di una certa porzione di spazio che non è, propriamente, un luogo, quanto un non-luogo in cui si susseguono narrazioni eterogenee. Dal rimando ancestrale alle civiltà precolombiane allo sviluppo storico e politico che ha visto la città come una costante crocevia di interessi e migrazioni, l’Espacio collega temporalità difformi e lontane, come se fosse sempre esistito. Riesce, nella sua complessità, a essere immediatamente autoesplicativo, anche senza le prospettive critiche che chi scrive vuole valorizzare.