03 maggio 2025

È finita l’era dell’architetto demiurgo. Ora è tempo di intelligenze collettive. Intervista a Carlo Ratti

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Nominato curatore della 19. Mostra Internazionale di Architettura alla Biennale di Venezia, Carlo Ratti ci racconta di un mondo che cambia rapidamente e delle nuove intelligenze che (forse) possono salvarlo. Facendoci qualche anticipazione sulla manifestazione che sta per aprire i battenti

carlo ratti
The Other Side of the Hill. Participants: Beatriz Colomina, Roberto Kolter, Patricia Urquiola, Geoffrey West, Mark Wigley

Intelligens. Natural. Artificial. Collective: la 19° Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia curata da Carlo Ratti si presenta come un tentativo ambizioso e necessario di confrontare il mondo dell’architettura con le sfide strutturali su scala ambientale e sociale che stanno sollecitando il mondo che tutti noi abitiamo, imponendo un cambio di paradigma e di visioni che ci porti a strategie e progettualità differenti. Non si tratta di chiedere all’architettura di risolvere i problemi del mondo, quanto piuttosto di uscire alla logica modernista dell’architetto demiurgo guardando al progetto nella sua centralità visionaria e, insieme, nella capacità di essere attivato e cresciuto da intelligenze e storie diverse, integrate e complementari. Si tratta di una sfida importante, che porterà un numero altissimo di partecipanti e di proposte progettuali che potremo visitare tra gli spazi della Biennale e la città di Venezia a partire da maggio.

Cominciamo proprio da intelligens, una parola che mette al centro “la gente”, intesa come una forma di intelligenza collettiva. Perché, pensando a una biennale d’architettura, hai deciso di usare questo termine?

«L’idea di partenza era di chiamare la biennale I.N., cioè Intelligenza Naturale, in controtendenza all’Intelligenza Artificiale di cui tutti parlano. Sarebbe stato un titolo parziale, seppur provocatorio, ho cercato quindi una parola capace di contenere le varie intelligenze. Lavorando su intelligenza in italiano e intelligence in inglese, è venuta fuori una radice comune».

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Carlo Ratti, Curatore Biennale Architettura 2025. Photo Andrea Avezzù

Tra l’altro l’intelligenza naturale sarà una delle tre sezioni delle Corderie, come hai dichiarato.

«Esatto. Il titolo racchiude l’intelligenza naturale, artificiale, collettiva. Nella prima si parla delle logiche che partono dai materiali naturali, dall’utilizzo di ecosistemi e dei batteri: Kengo Kuma farà un’architettura che usa la complessità dei tronchi d’albero, che una volta non sapevamo gestire, ma oggi con la tecnologia, scansioni tridimensionali e stampe, riusciamo a metterle insieme senza dover rendere tutto ortogonale, stereometrico».

E per quanto riguarda gli autori?

«In questa Biennale ci sarà anche il compianto Italo Rota, che incontrai proprio grazie a te al Padiglione Italia che curasti nel 2010. In quell’occasione ci avevi chiesto di ragionare sull’Italia del 2050 ed è stato l’inizio di un rapporto. Sarà ricordato in diversi modi, tra cui il lavoro della vedova Margherita Palli, che è coinvolta in uno dei grandi progetti al centro dell’Arsenale».

Tornando al tema, mi colpisce quando dici che l’architettura deve passare da una fase di mitigazione a una di adattamento. Prima l’architettura era pensata per contenere e mitigare l’impatto ambientale, oggi non è più sufficiente. Il tema dell’adattamento indica anche un cambio di prospettiva culturale: non è più l’architettura che si impone sulla natura determinando un modo di vivere, ma diventa invece quasi una forma organica tra naturale e artificiale, coesiste con un ambiente molto più complesso che impone all’architettura di crescere diversamente.

«Mi interessa molto questa cosa, perché l’adattamento potrebbe essere pensato in modi diversi. Non è vero che mitigare non serve più: di fronte agli incendi di Los Angeles e alle alluvioni di Valencia capiamo che esiste una nuova dimensione che implica una riflessione non solo sull’architettura, ma anche su trasporti, produzione di energia, industria, fino ai comportamenti individuali».

E a proposito dell’adattamento?

«In questo caso l’architettura è al centro. Parte dall’immagine della capanna primitiva di Laugier, che si adatta a un clima ostile. Intendo tornare alle radici dell’architettura. Dopo la conferenza stampa mi hanno detto che dalle ultime edizioni delle biennali ci si lamenta perché la mostra sconfina sempre in altri campi, dall’arte alla politica, e che c’è preoccupazione che questa biennale segua la stessa direzione. Invece la questione è proprio l’opposto, qui parlare di adattamento vuol dire tornare sull’ambiente costruito, al centro dell’architettura in senso vitruviano, vuol dire tornare al centro dell’architettura, almeno come architettura vitruviana, di firmitas, venustas, utilitas, portando dentro altre discipline».

Ad esempio?

«La cosa interessante sarà vedere grandi matematici, premi Nobel, chef come Davide Oldani ma anche il contadino dell’Amazzonia e il boscaiolo della Francia, lavorare assieme al giovane architetto, oppure al premio Pritzker, ma sul terreno proprio dell’architettura, quello dell’ambiente costruito, per occuparsi di adattamento. Non è più il tempo dell’architetto titano che cambia il mondo da solo, oggi deve lavorare in maniera trasversale in team generando una forma di intelligenza collettiva attraverso il progetto, rovesciando il paradigma del Novecento».

Elephant Chapel. Participant: Boonserm Premthada

Entrando dentro alla Biennale: ci fai qualche anticipazione?

«Tre le sezioni: Intelligenza Naturale, Intelligenza Artificiale e Intelligenza Collettiva, più una intitolata Out per prendere un po’ in giro l’idea di Elon Musk di andare colonizzare altri pianeti. Come dice uno degli invitati Martin Rees, astronomo, uno dei più grandi astrofisici viventi, professore a Cambridge, che dice il posto più abitabile fuori dal pianeta Terra è mille volte peggio dell’Antartide o della cima del monte Everest. Andare fuori ci può aiutare a capire meglio il nostro pianeta, non è una scusa per abbandonarlo!».

Ovvero?

«Abbiamo due dei più grandi scienziati del clima: da una parte Sonia Seneviratne, indiana, professoressa all’ETH di Zurigo – forse la più importante studiosa del clima oggi – insieme a Transsolar, gruppo di architetti e ingegneri che lavora con il clima, con Michelangelo Pistoletto e la sua idea di Terzo Paradiso. Poi c’è un altro parametro chiave e riguarda la decrescita demografica».

Raccontaci di più.

«Il Giappone perde 1.800.000 persone all’anno, mentre la Corea tra pochi decenni sarà più spopolata della Svizzera. Anche l’Italia è in una situazione simile. In questo caso l’installazione d’ingresso è organizzata da un gruppo composto da Geoffrey West del Santa Fe Institute e Roberto Kolter – forse il principale studioso di batteri in comunità – insieme a Beatriz Colomina e Mark Wiggly che indagano la relazione tra architettura e biologia; e poi la designer Patricia Urquiola che ha trasformato tutto questo in spazio».

Ti faccio una provocazione. Hai dimostrato un’impostazione quasi ottocentesca, c’è questa idea che la scienza sia ancora il motore della possibilità per l’umanità di migliorare. In un momento come questo, in cui la situazione geopolitica complessiva e climatica è prossima al dramma, tu dimostri un ottimismo che è quasi anacronistico, no?

«Non credo nell’ottimismo ottocentesco ma nella progettazione, perché ci permette di immaginare mondi nuovi. Tante idee attecchiscono o meno in funzione di come vengono recepite dagli utenti, dai cittadini. Io credo che il design e la progettazione debbano partire da questo. Come ricostruiremo un pezzo di Los Angeles dopo gli incendi? Bisogna avere le idee chiare prima di investire decine di miliardi. All’interno di questo sforzo di immaginazione e progettazione i numeri della scienza ci guidano nel fare previsioni».

Gaggiandre. Photo Andrea Avezzù – Courtesy of La Biennale di Venezia

Quest’anno non hai il Padiglione Centrale e lavorerai di disseminazione sulla città di Venezia. Cosa vuol dire lavorare i termini policentrici in una città che già di per sé è un arcipelago?

«Questa per me è una grande opportunità perché Venezia è una delle città più fragili in relazione alle sfide di cui parliamo, quella climatica, del turismo di massa, di una globalizzazione che la sta distruggendo. È la città che può diventare laboratorio, sviluppando idee esportabili anche altrove. Diventa interessante l’idea di una biennale fuori padiglione, che salterà nei Giardini, occuperà l’Arsenale, ma sarà anche in piazza San Marco, parlando anche a un pubblico che spesso non va oltre le vie principali della città».

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