20 marzo 2001

Exibargomento Architettura & Cinema: “L’ultimo bacio” di Francesca Pagnoncelli

 
Guardando agli spazi del recente film: un’analisi comparata tra emozioni e luoghi...

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Difficile rimanere impassibili e distaccati, difficile non sentirsi coinvolti e non trovare corrispondenze con la varietà di personaggi e situazioni che sfilano e si dipanano ne “L’ultimo bacio “. E’ il film del momento, caso sociale, specchio di timori, dubbi, incertezze, che da sempre hanno sconvolto l’animo umano, ma che solo da poco hanno la possibilità di rompere le barriere imposte dalla tradizionale struttura sociale e di esprimersi liberamente. La pellicola mette in luce i contrasti, prima interiori che interpersonali, nati dalla presa di coscienza, dolorosa e sconcertante, dell’abissale distanza che esiste tra sogno e realtà, tra visioni ideali di valori come amore, rispetto, lavoro e, per contro, abitudine e quotidianità, routine. Non è una semplice sindrome di Peter Pan quella che serpeggia e cresce nell’animo dei protagonisti, bensì vitalità impazzita perché costretta a sottostare a regole comportamentali che appaiono vecchie e limitanti. Se i ruoli sociali tradizionali non valgono più nei rapporti tra i sessi e, le figure maschili e femminili sono connotate dal regista in modo diverso. L’analisi dello status quo è fatta da un occhio decisamente maschile che vede ancora nelle donne un punto fermo, delle figure più capaci di capire ed inseguire instancabilmente ed ingenuamente un sogno d’amore. E se gli uomini sognano la fuga, l’evasione, l’allontanamento dalla casa – focolare, nell’iconografia del film è la donna che ne resta la custode. Proprio per questo il personaggio di Stefania Sandrelli torna indietro, ripensa ad una fuga causata non dalla fine di un amore per il marito, ma dall’incapacità di quest’ultimo di credere ancora nella coppia.

Gli ambienti in cui si svolgono le scene del racconto corrispondono perfettamente al ritratto che il regista fa dei suoi personaggi “troppo furbescamente esemplari di un campionario sociologico un po’ stereotipato”, secondo la definizione che ne da Paolo Meneghetti. Si passa dalla villa unifamiliare dei genitori, contornato da un ordinato giardino, all’appartamento grande, luminoso, ordinato della coppia in attesa di un figlio, passando per quello più piccolo e trascurato di chi un figlio ce l’ha già. C’è poi l’appartamento grigio, polveroso, demodé di genitori distanti e anch’essi incapaci di stare al passo coi tempi, e il monolocale-garçonnière, di gusto vagamente etnico-hippie, dell’eterno donnaiolo. Cambiano i ruoli, sono in discussione le basi stesse della convivenza sociale e del nucleo familiare, ma tutto ciò trova ancora posto in spazi tradizionali e “borghesi”, definitivamente consacrati dalla scena finale in cui la tanto voluta e costruita famiglia felice si stabilisce nella sua villetta con giardino, barbecue, e un bel cane, mentre il resto del gruppo riprende coraggiosamente la ricerca di una propria identità scegliendo la forma del nomadismo e la casa mobile, un furgone in stile Sessantotto. Per tornare al commento di Mereghetti non si può dire che la ricerca sul “design sonoro” si sviluppi anche nel settore delle location, per dirla all’americana, nella caratterizzazione psicologica degli interni, dei contesi, dei luoghi in cui la vicenda si svolge. Solo una fontana nel paesaggio urbano di una mastodontica EUR romana riesce, per un attimo, a dare respiro sociologico alla scena in cui il piccolo dramma quotidiano dello scontro con la realtà si scioglie in urla liberatorie munchiane.

Francesca Pagnoncelli


Francesca Pagnoncelli
laureata nel 1999 in Architettura al Politecnico di Milano
con una tesi storica che indaga i rapporti tra architettura e regime
durante il fascismo – dopo due anni di esperienza maturata
nell’organizzazione di eventi culturali legati all’architettura per
l’associazione IN/ARCH di bergamo inizia a scrivere sul portale
www.architettura.it e su www.exibart.it, per poi essere
chiamata alle redazioni delle riviste AREA, MATERIA
e del portale www.archinfo.it


[exibart]

6 Commenti

  1. L’analisi è bella, d’accordo… mi chiedo però se un film di questo tipo – insomma, non particolarmente bello – sia degno di tutta questa attenzione… Davvero ci vedi Edvard Munch nel finale? Mmmhhhhh…….. ho i miei dubbi… comunque mi piace molto l’accostamento. Ciao!

  2. forse sono accostamenti che possono sembrare arbitrari,ma credo che ognuno di noi si sia sentito progioniero della realtà durante la sua vita ! ho sempre interpretato l’urlo di munch come la disperazione derivata da un’impotenza di modificare il mondo in cui si vive e dal sordo dolore che segue a questa consapevolezza!credo che possa corrispondere al messaggio del film di Muccino anche se poteva essere raccontato andando molto più a fondo della questione !

  3. Non voglio dire che il tuo accostamento è arbitrario. Secondo me, però, accostare Munch a Muccino significa dare a quest’ultimo un po’ troppa importanza. Ciao!

  4. Il dibattito si è concluso da tempo e questa pagina (che ho scoperto solo ora zigziagando qua e là) deve essere un po’ assopita. Comunque volevo dire la mia…
    non credo che lo studio scenografico de “l’ultimo bacio” sia così sofisticato. Penso che la prima cosa che gli ambienti evochino sia lo stato sociale del proprietario e, grazie le luci, giusto l’atmosfera (per carità … cosa fondamentale pe run film). Ecco allora appartamenti grandi o piccoli, scuri per un lutto, un po’ etnici perchè quell’attore ha i rasta, un giardino con una villetta al centro che fa tanto borghese. Ma la scenografia non gioca un ruolo chiave (come ne l’età dell’innocenza, film completamente diverso, di ben altro livello, che però insiste molto sull’oggetto. Effettivamente non c’entra niente, ma mi è venuto in mente questo film ora!). PEr dirla in breve, mi sembra che anche gli ambienti come i personaggi siano un po’ stereotipati (volutamente o meno, questo non so). Dopotutto in questo periodo siamo un po’ tutti ikeaomani e ci esaltiamo sfogliando “Case da Abitare”.

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